Vincenzo, tra Ucraina e Mediterraneo: «Tu salvi loro, loro salvano te»

«Tempo fa sono stato a Lampedusa, un’esperienza fatta con rabbia e per amore. È un’isola piena di turismo estivo con 6mila abitanti. Le persone migranti a volte sono ancora di più, però, sono tenute nascoste in un hotspot in una vallata in mezzo al niente. Io voglio combattere questa dinamica: è una battaglia di umanità contro la disumanità. E non è vero che non ci sarebbero mezzi per accogliere tutti. I Cpr, i centri di accoglienza, sono veri e propri luoghi detenzione. Bisogna cambiare questa logica securitaria. Bisogna smettere di tenere persone alla catena sperando che scompaiano. Viviamo nella grande ipocrisia di un sistema che se ci sono troppi migranti li nasconde, ma comunque si serve di loro per lavori massacranti perché altrimenti i padroni dovrebbero alzare i salari e garantire condizioni di lavoro dignitose».

Vincenzo Stuppia, 26 anni, la militanza politica come vocazione sin dal liceo. Poi la laurea in Scienze Politiche, ora anche un Master in vista nella gestione di emergenze umanitarie.  Intanto, «nel dicembre 2020 decido di tesserarmi con Mediterranea. – racconta il ragazzo – Apprezzavo il loro lavoro ed ero indignato  come una parte del popolo di sinistra sulla gestione del flusso migratorio in Italia. All’inizio mi sentivo lontano dal centro delle questioni, anche perché vivevo a Pescara che non è la città ideale per fare attivismo. Ho agito, però, in risposta a un bisogno morale: Mediterranea dispone dell’unica nave tra la Civil Fleet – flotta internazionale di monitoraggio e soccorso attiva nel Mediterraneo, ndr – battente bandiera italiana. Se ci sono persone che si oppongono a un gestione umana dei flussi migratori, io sostengo chi difende l’umanità».

La “difesa” è iniziata nel porto di Augusta (Siracusa), la notte tra il 3 e il 4 ottobre 2018, in pieno clima di criminalizzazione del migrante. Fu la prima missione di monitoraggio e soccorso in mare in risposta «alle migliaia di morti nel Mediterraneo e alla politica dei porti chiusi», si legge sul sito di Mediterranea. In cinque anni si sono moltiplicate e diversificate: oggi l’associazione opera sia via mare che via terra in sinergia con le altre flotte europee, si è dotata di organi orizzontali di discussione e deliberazione, è diventata un’Associazione di Promozione Sociale con sede legale a Bologna. Vincenzo oggi fa parte dei circa 3500 attivisti e attiviste sparse tra l’Italia, l’Europa e l’America.

«In verità, la scelta di associarmi è stata quasi casuale. –  ammette il giovane attivista – Dopo qualche giorno dall’iscrizione, mi è arrivata una mail in cui mi chiedevano di aiutare un equipaggio di terra. Da lì è stata una normale prosecuzione. Ho continuato a fare militanza politica orientata a qualcosa di specifico come l’immigrazione. All’inizio il mio impegno era piuttosto blando, ma già a Pescara ho iniziato a fare gruppo sul territorio per sensibilizzare la cittadinanza rispetto al problema».

Quando hai capito veramente in che cosa consisteva il servizio?

«A settembre 2021 ero a Chioggia (VE, ndr) per una formazione logistica dell’assetto di salvataggio della Mar Jonio. Lì ho imparato come si organizza una nave per il soccorso civile. Poi sono andato a Lampedusa una settimana perché stava nascendo il progetto Maldusa: un osservatorio permanente in loco sui diritti umani e sul fenomeno migratorio».

Non solo mare: in Ucraina sei stato in missione due volte nell’ultimo anno. Che paese hai trovato?

«Io posso raccontare solo di Leopoli, una realtà un po’ edulcorata perché meno coinvolta nel conflitto. È uno snodo per persone che entrano ed escono dal Paese. La guerra si palesa sottoforma di missili e bombardamenti. In generale, l’Ucraina è un Paese stanco degli scontri, ma con voglia di andare avanti nonostante una paura che può essere scambiata per incoscienza. Per esempio, molti a Leopoli quando c’è l’allarme per i bombardamenti non corrono nei rifugi. Ti dicono: “è impossibile vivere normalmente scendendo di continuo”. Preferiscono rischiare pur di vivere una vita normale. Infatti in strada vedi ristoranti pieni, matrimoni che si celebrano».

E quindi come ti accorgi della guerra?

«Oltre che con gli allarmi, con i cartelloni in mezzo alla strada che incitano ad arruolarti. Anche se la vita comunque scorre. Però, per darti l’idea del paradosso, il cimitero di Campo di Marte, il più grande della città, si è dovuto allargare per accogliere altri morti: hanno creato uno spiazzo fuori le mura che è una distesa di croci e bandiere ucraine. Insomma, la situazione è dicotomica: la città è piena di vita, ma in qualche modo tante cose ti riportano alla guerra».

Le emozioni che hai provato vivendoci...

«Appena iniziata la guerra, ho chiesto di poter partire e così è iniziato tutto, probabilmente ci tornerò ancora. È stato un mettermi in gioco graduale e sempre più importante. Sai che sei un tassello in un mondo in cui ognuno dà il suo contributo. Ti riempie il cuore perché lavori insieme a un popolo di persone che non ha perso la speranza».

Come si svolgeva una giornata tipo lì?

«La prima volta in missione di rifornimento, a maggio, consisteva nel portare alla popolazione vestiti, farmaci e cibo. Ricordo che le giornate scorrevano abbastanza veloci: giravamo per le strade, consegnavamo aiuti e cambiavamo zone. I contatti con la popolazione erano rapidi, ci facevano tanti ringraziamenti, ma sembrava d’essere di passaggio. Quando sono tornato, sono stato assistente del comparto sanitario: passavo l’intera mattina e il pomeriggio in vari campi profughi. Stavo molto più a contatto con le persone, sentivo storie allucinanti ma tornavo la sera a casa con un portato che non pensavo di poter sperimentare».

I media italiani stanno distorcendo o raccontando fedelmente la guerra?

«Sicuramente offrono una narrazione distorta. Non è, però, solo un problema dei nostri media: è difficile parlare di un conflitto stando in un altro paese. Il problema principale è che si veicola l’idea che la guerra sia uguale in tutta l’Ucraina, che tutte le città siano la stessa cosa. Non è minimamente così, sarebbe come dire che durante la Seconda Guerra mondiale c’era la stessa situazione a Stalingrado o in Siberia. Si diffonde un’idea molto generica, per parlare di un fenomeno così complesso rimanendo a distanza di sicurezza».

Se fossi direttore di un giornale italiano come cambieresti questa narrazione?

«Mi piacerebbe si raccontasse la resistenza psicologia e morale del popolo ucraino in posti in cui la normalità non si è arrestata. Non c’è bisogno, sempre, di avere un atteggiamento drammatico. Io sono andato lì ad aiutare, ma ho capito che portare altro dramma in un posto che lo vive già ogni giorno sarebbe stato controproducente. Poi parlerei soprattutto di esempi virtuosi, di realtà che si sono riconvertite, hanno cambiato assetto con la guerra»,

Per esempio?

«Per esempio, dell’associazione Insight che si occupava di tutelare persone LGBTQ e, pur continuando a seguire queste persone che rischiano di essere discriminate ancora di più dato il contesto, ora presta assistenza anche a mogli e figlie di persone partite per il fronte».

Un’immagine simbolo della “tua” Ucraina.

«Campo profughi di Sikiv, il più grande di Leopoli. Arriva un ragazzo del 1994, tre anni più grande di me: si mette in fila, è molto sospettoso, irrequieto, si guarda intorno, non riesce ad aspettare il suo turno. Finalmente lo visitiamo: racconta che in guerra è stato ferito da una granata alla schiena. Tornato a casa, gli è stato diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress. Parlando, cerca di frenare le braccia che tremano sotto le ascelle, racconta che ogni volta che vede la carne va in paranoia perché sente odore di cadavere: nel suo plotone sono sopravvissuti in dieci su cinquanta. Capiamo che non gli servono cure fisiche e lo mettiamo in contatto con lo psicologo del campo. Ritorna una seconda volta: ci sorride, ci stringe la mano, ci ringrazia uno ad uno».

Abbandoniamo l’Ucraina e ributtiamoci in mare. Chi sono, cosa cercano le persone che salva oggi Mediterranea?

«Siamo noi. Nel senso che sono persone di qualunque nazionalità, età e di quasi ogni contesto sociale, dato che i più poveri non si possono neanche permettere il viaggio. Partono persone che vedresti in giro per una normale città, costrette ad affrontare un percorso abominevole. In fondo, siamo noi a salvare noi stessi e loro a salvare noi. Che differenza c’è tra noi e un ragazzo dalla Libia che viene in Europa per studiare o lavorare? Che differenza c’è tra noi e persone in fuga dalla guerra o dalla crisi climatica? Lo stereotipo che a destra vorrebbero costruire – che vengono solo uomini forti e capaci a rubarti il lavoro, o al contrario donne e bambini messe in mare dall’incoscienza degli uomini delle loro famiglie– è falso. Il motto di Mediterranea è: ‘Prima si salva e poi si discute’. Non sai chi stai salvando, sai che devi farlo senza indagare sulle cause”.

Stando alla strettissima attualità, sul tema il governo Draghi ha promulgato due circolari – n. 166 del 2021 e n. 167 del 2022 -“confermate” dal più recente Decreto Piantedosi. Norme che sostanzialmente vi mettono i bastoni tra le ruote e non sembrano risolvere minimamente la questione. Che difficoltà incontra Mediterranea oggi nelle sue missioni?

«Proprio negli ultimi giorni è stata oggetto di sabotaggio in quanto, come detto, unica nave battente bandiera italiana nel Mediterraneo, per cui il governo italiano può intervenire in ogni modo. La mare Jonio ha appena superato i controlli di certificazione R.I.N.A., necessari per navigare. Tecnicamente siamo pronti a ripartire, ma la Guardia Costiera solleva problemi inutili e pretesti».

Per esempio?

«Per esempio che sul ponte non c’è l’orologio o che bisogna rimuovere l’attrezzatura di salvataggio perché potrebbe essere un ostacolo per gli altri strumenti di navigazione. Cercano di togliere a una nave che va in mare per salvare vite, gli strumenti necessari per farlo. Con queste leggi chi lo fa rischia fino a sei mesi di detenzione».

Quali sarebbero necessarie, allora, per operare in libertà?

«Basterebbe semplicemente eliminare le norme degli ultimi governi: ci stanno costringendo a fare slalom tra i decreti perché il diritto internazionale comunque obbliga a salvare vite in mare. È un principio inderogabile. Invece, in Italia assegnano alle navi anziché i porti di sbarco più vicini quello di Ortona (CH, ndr) o addirittura le dirottano al Nord. Insomma, basterebbe eliminare quanto fatto negli ultimi anni. Il governo Meloni specula sul tempo necessario per le pratiche burocratiche, e nel frattempo tiene ferme le barche».

I tuoi progetti futuri?

«Voglio dare il mio contributo per l’Ucraina fin quando la guerra non finirà. Mi sto per professionalizzare in un Master in Humanitarian Operations in Emergencies alla Social Change School di Roma per dare un apporto da professionista, non da volontario. Dico sempre che rimarrò in Mediterranea fino al 2080 per essere sempre più d’aiuto, ma anche per gratitudine verso questa una realtà senza la quale forse non avrei deciso di fare quello che ho fatto, e forse non mi sarei iscritto al Master».