«Vergine giurata», occhi delicati per comprendere le burneshe dell’Albania

Non è un fenomeno esotico, non è una storia da programmi tv in prima serata. Non è nemmeno, a questo punto, un facile oggetto da ricerca antropologica in un Paese considerato meno civilizzato del nostro. Piuttosto, è un retaggio della tradizione di una certa zona settentrionale dell’Albania che forse ha molto da raccontarci sul genere, sui ruoli, sull’identità, sulla società patriarcale e su tutte le rigidità che abbiamo nella testa quando parliamo di maschi e femmine, uomini e donne.

Avevo già letto «Vergine giurata» di Elvira Dones, un libro bellissimo da cui è stato tratto l’omonimo film di Laura Bispuri interpretato da Alba Rohrwacher. Un libro e un film che a tutto ti portano fuorché a credere che quello delle burneshe, le donne albanesi che decidono di vivere come uomini per vari motivi (dal non volersi sposare, assoggettandosi ai mariti, al sentirsi in un corpo maschile) sia un tema da esposizione e da “circo”. Ieri all’Almagià lo spettacolo «Vergine giurata» di Jeton Neziraj, interamente interpretato in lingua albanese (e sottotitolato in italiano e inglese) ha proprio messo in evidenza come, per conoscere e capire il perché e il percome delle burneshe, sia necessario uno sguardo delicato, intimo, che prova ad approfondire e che, soprattutto, non fa paragoni con altri contesti.

La vergine giurata dello spettacolo, una magistrale e credibilissima Tringa Hasani, finisce in Gran Bretagna invitata da una docente universitaria, che la mette in contatto con una drag queen, che proverà a sua volta a sfruttarne l’immagine e la storia, con l’intento di inventarne alcuni aspetti per dare spettacolo. La vergine giurata si arrabbierà, protesterà, reagirà con violenza a quella che le appare come una mortificazione della sua persona e delle sue scelte. Le scelte di una donna che, avendo solo sorelle, avrebbe perso la proprietà della casa e della terra di sua padre, se non avesse giurato («betohem») davanti alla società di diventare un uomo e di non avere rapporti sessuali per il resto della vita: indurendo la voce, bevendo raki, fumando, passando il tempo libero nella “stanza degli uomini”, allevando bestie sulle montagne. Ma anche fasciando il seno con bende strettissime, indossando solo pantaloni, portando i capelli corti e provando a ignorare il fatto che sì, una volta al mese il corpo ti ricorda che sei biologicamente una donna, perché le mutande si macchiano inesorabilmente di sangue.


Che il tema del genere, di quello che sentiamo di essere, di quello che la società si aspetta da noi in base al fatto che siamo (o proviamo a essere) uomini o donne sia al centro di questa storia, è più che mai evidente. Ma non lo è solo per la vergine giurata in sé. Lo è anche per chi, con la burnesh, si relaziona. Perché quando Sose (Tringa Hasani) ha un approccio sessuale con Edith, l’antropologa inglese interpretata da Semira Latifi, la domanda che sorge spontanea è una sola, ma vale a doppio senso:

«Mi hai baciata da uomo o da donna?»
«E tu, mi hai baciata da uomo o da donna?»