Un medico ravennate a capo dell’ambulatorio psichiatrico di Wolisso: «L’epilessia è la malattia più diffusa»

A Wolisso, città dell’Etiopia, c’è un ospedale, l’unico nel raggio di 120 chilometri, dove si trova un piccolo ambulatorio psichiatrico. Fino a qualche anno fa, era solo una angusta stanza, senza porta, dove si svolgeva tutto il lavoro clinico e medico: dall’accoglienza dei pazienti, alle visite, alla prescrizione infine delle cure. In questa parte del mondo, in cui i casi di epilessia raggiungono quasi il 30% e sono altissimi gli episodi di suicidio, soprattutto tra le giovani donne, una équipe di quattro unità, due giovani infermieri, uno psicologo del posto e uno psichiatra, Andrea Melella, ex direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’Ausl di Cesena e volontario di Cittadinanza Onlus, ha avviato un progetto per la totale riorganizzazione e potenziamento di questo ambulatorio.

Andrea Melella, che vanta nella sua carriera professionale anche un’esperienza decennale come primario del centro psichiatrico dell’Ospedale ‘degli Infermi’ di Faenza, oggi è un medico volontario di Cittadinanza Onlus, associazione riminese fondata da Maurizio Focchi, presente in diversi Paesi a basso reddito come l’India, il Kenya e l’Etiopia. Prima ancora, subito dopo il suo pensionamento nel 2008, Melella ha partecipato a diverse missioni con Medici senza Frontiere, in Italia e all’estero, prestando servizio in Libia, nel Donbass in Ucraina, a Roma in un centro per vittime di violenze e di tortura e a Trapani, in Sicilia, dove forniva supporto e assistenza medica ai migranti insieme a quattro psicologi. La sua collaborazione con Cittadinanza Onlus inizia quattro anni fa, quando gli viene affidato un progetto per minori disabili e così anche l’incarico di supervisionare a distanza, e con missioni in loco, l’ambulatorio psichiatrico dell’ospedale ‘Saint-Luke’, a Wolisso. La struttura sanitaria è di proprietà dell’associazione padovana «Medici con l’Africa Cuamm» fondata dal medico e prete Don Dante Carraro, che gestisce altri sei ospedali in tutta l’Africa, conta in tutto 220 posti letto e un pronto soccorso con centinaia di accessi al giorno, oltre a circa 4500 parti all’anno.

«Se consideriamo che non c’è un altro presidio nel raggio di 120 km, immaginate quanti pazienti arrivano ogni giorno in ospedale e quanto sia difficile porteli assistere tutti, anche a causa della continua carenza di farmaci e di medicinali, come accade spesso in Africa. – spiega Melella – Solo nell’ambulatorio psichiatrico si contano 35 visite al giorno, un numero impressionante rispetto ai nostri standard europei. Le persone che si rivolgono a noi, nel 30% dei casi, soffrono di epilessia e spesso non riusciamo a prescrive loro anche un semplice ansiolitico o antidepressivo, perché ne abbiamo a disposizione solo uno o due al giorno. Prima del nostro arrivo, tutta l’attività medica si svolgeva in un’unica stanza, senza porta, dove era praticamente impossibile riservare del tempo all’ascolto del paziente. Uno dei primi cambiamenti su cui abbiamo lavorato – prosegue Melella – è stato infatti di tipo strutturale. Ci siamo dotati di una seconda camera, così da avere più spazio a disposizione; in secondo luogo abbiamo finanziato la gratuità dei farmaci per gli epilettici dai 0 ai 18 anni e definito meglio l’équipe medica dell’ambulatorio, oggi formata da due infermieri, me e uno psicologo. Abbiamo lavorato alla formazione dei sanitari sul posto, per migliorare le tecniche e l’approccio al paziente, e dato più spazio all’ascolto di chi soffre di disturbi mentali».

A Wolisso, oltre all’epilessia si registrano molti casi di schizzofrenia, di psicosi in tutte le sue forme e di depressione, patologia quest’ultima che spesso sfocia nel suicidio, soprattutto tra le donne più giovani, vittime ancora di una società fortemente patriarcale, che impone loro come vivere: «Un paziente, sia di sesso maschile o femminile, quasi sempre è infatti accompagnato in ospedale dal padre o comunque in generale da un parente maschio. Le donne, moglie e figlie, si trovano in una condizione di totale soggezione e subordinazione al capo famiglia. In Etiopia, inoltre, i nuclei familiari sono nella maggior parte dei casi molto numerosi e l’indice di povertà tra i più alti nel mondo. Tutti elementi che incidono in maniera predominante sulla cultura del territorio e che alimentano forti pregiudizi nei confronti di chi soffre di certe patologie, soprattutto psichiche. I disabili, ad esempio, come gli epilettici, sono posti ai margini della società, perché non in grado di lavorare e quindi considerati poco utili. Inoltre, c’è un forte strato di credenze e usanze legate alla religione, cattolica e musulmana, come quella di immergere i malati nell’acqua benedetta. Le così dette “Holy waters”. Grazie a Cittadinanza Onlus abbiamo introdotto farmaci più recenti ed efficaci per curare soprattutto le patologie più gravi, anche se ad oggi con la guerra in atto, facciamo grande fatica a reperire medicinali e così curare i nostri pazienti».

Andrea Melella ha in programma di ritornare a Wolisso in maggio, insieme ad una collega specializzata in neuropsichiatria infantile, per seguire gli avanzamenti e sviluppi dell’ambulatorio. Nel frattempo dall’Italia supervisiona a distanza il lavoro dell’ambulatorio coinvolgendo diverse colleghe dell’ASL Romagna, all’interno del progetto WAVE 2, col contributo della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Ravenna. Sulla questione migranti in Italia e nel resto del mondo, ritiene che ci sia ancora molto da fare quanto ad accoglienza, politiche sociali e di integrazione, «anche se queste persone con o senza patologie pregresse, una volta arrivate in suolo europeo, hanno accesso più facilmente alla rete di servizi sanitari, psicologici e di ascolto, rispetto che in Africa». Ma che cosa motiva Melella, 73 anni, ad essere ancora un volontario? «Probabilmente mi sento un emigrato anche io, o meglio lo sono stato, visto che avevo quattro anni quando la mia famiglia lasciò Napoli e si trasferì a Ravenna. In quel momento storico i pregiudizi nei confronti della gente del Sud d’Italia, dei “terroni’, erano più radicati rispetto ad ora. Il secondo motivo lo ritrovo nel mio amore per la medicina, intesa come strumento per aiutare gli altri tramite l’universalità e gratuità della cura. Una scelta fatta principalmente per il lato umanitario intrinseco in questa scienza, oltre che per i suoi aspetti clinici e medici. Poi incidono sicuramente le mie idee. Ho sempre pensato di dover “restituire”  alla società l’istruzione e la formazione che ho avuto la fortuna di ricevere dalle istituzioni. Per questo motivo e per altri ancora, credo fortemente che il nostro sistema sanitario nazionale andrebbe difeso e tutelato di più. Negli ultimi anni, stiamo assistendo a innumerevoli tagli governativi fatti sulla sanità; ciò comporta una riduzione delle risorse e di conseguenza l’impossibilità di lavorare sul progresso medico e scientifico. Infine c’è l’aspetto emotivo, che forse è quello più importante. Aiutare gli altri, dare il mio contributo, mi gratifica tanto. Non l’ho mai vissuto come un obbligo morale. È uno scambio reciproco di gioie, sensazioni piacevoli, tra me, i miei pazienti e i colleghi con cui dialogo ogni giorno. I valori cristiani, democratici e civili sono alla base della mia vita e li ho sempre rispettati come professionista e persona. Nella mia carriera ho contribuito alla chiusura, in molte parti d’Italia, degli ospedali psichiatrici in cui si praticava la ‘contenzione’, metodo clinico di gestione del malato che non può essere qualificato come ‘cura’ ma solo come violenza e tortura fisica e psicologica. Pensiamo ai pazienti psichiatrici legati ai letti, all’elettroshock, all’isolamento. Insieme ai colleghi abbiamo lavorato sodo affinché questo ‘stigma’ dietro a chi soffre di disturbi mentali fosse abbattuto per dare spazio ad una psichiatria più umana e più centrata sulla persona».