Succede che siamo a scuola, e la maestra ci chiede: “Che cosa vuoi fare da grande?”
È una delle prime domande che ci vengono rivolte, ma è anche la domanda più complessa, più piena, che ci accompagna poi per tutta la nostra esistenza. È la domanda che ci spinge a guardare al nostro futuro, tenendo ben presente le azioni concrete del presente.
Immaginiamo la vita che vorremmo avere, il lavoro che vorremmo fare, se ci piacerebbe continuare a studiare e cosa, dove vorremmo vivere, quali posti vorremmo visitare. Chi vorremmo frequentare, amare, incontrare.
‘Da grande vorrei…’ e riempiamo giorno dopo giorno quei puntini sospensivi: l’immagine delle nostre speranze diventa sempre più nitida nella nostra mente e più vicina alla nostra realtà.
I sogni si trasformano in obiettivi, le speranze in progetti: tutto prende forma, il desiderio è conquista, l’immaginazione è realtà, con le sue difficoltà, e i suoi grandi momenti di felicità.
Succede però che un giorno, tutto viene spazzato via, e non riusciamo a capire nemmeno perché.
Questo è quello che succede, e che sta ancora succedendo, in Ucraina: il 24 febbraio 2022 l’esercito russo invade il Paese, spezzando migliaia di “vorrei”, bloccati nel tempo e nello spazio. Come i “vorrei” di O., come i sogni di A., cittadine ucraine oggi residenti a Ravenna con le loro famiglie, coraggiose protagoniste di questa storia.
“In una giornata è crollato tutto ciò che abbiamo cercato di costruire per tutta la vita, ci racconta A.; il sogno, e la realtà che è diventato con fatica e gratitudine, non ci sono più, svaniti da un momento all’altro perché un uomo, umano come noi, ha deciso che quel futuro che abbiamo tanto sperato e progettato è d’intralcio ai suoi piani.
Succede, tuttavia, che c’è chi alla propria vita non voglia rinunciare. E allora si reinventa, si riadatta ad una nuova immaginazione: con enorme sforzo, ma pure con immenso e onorevole coraggio.
O. lascia Zaporizhia, nell’Ucraina sud-orientale, insieme a suo figlio a marzo 2022, a pochissime settimane dall’aggressione, per trasferirsi in un posto ‘sicuro’: l’Italia, Ravenna.
Racconta: “Abbiamo vissuto con la sorella di mio marito per due mesi, poi ci siamo trasferiti a casa di una famiglia italiana”.
A. invece ha il sogno di laurearsi in giurisprudenza e si trasferisce da Podilsk a Odessa per realizzarlo: lo realizza, dopo anni di sacrificio, e resta ad Odessa per 10 anni. Ma è poi costretta a reinventarsi, a cambiare città di nuovo, questa volta non per scelta ma per necessità, non nella stessa regione né nello stesso Paese, ma a migliaia di chilometri da casa: “La mia laurea magistrale in giurisprudenza, per cui ottenerla ho dedicato 7 anni della mia vita, adesso non conta niente. Dall’inizio della guerra tutto ciò che io e la mia famiglia abbiamo pianificato è stato cancellato“.
A. arriva in Italia nel maggio 2022 per la prima volta: viene accolta a Ravenna da un cuore buono, Giuseppe, ma è difficile adattarsi, cambiare vita così all’improvviso. E allora decide di ritornare in Ucraina di nuovo, e ci resta per otto mesi, sperando che la situazione possa migliorare, che la guerra finisca, forse spera che questo sia solo un brutto incubo che volerà via all’alba. Ma no, “la situazione in Ucraina non è cambiata, anzi è diventata più grave, sono aumentati i bombardamenti, e quindi decido di tornare di nuovo in Italia”, racconta.
Si stabilisce a Ravenna con la sua famiglia dal luglio 2022, ed è ancora Giuseppe ad accoglierli a braccia aperte nella sua casa, e a guidarli nel labirinto della quotidianità italiana. In seguito, A. e la sua famiglia prendono parte al progetto di Accoglienza Diffusa, l’iniziativa ravennate parte del più ampio piano nazionale ‘Emergenza Ucraina’, a supporto dei cittadini ucraini che chiedono protezione sussidiaria sul territorio italiano.
A. rivela le difficoltà che ha affrontato e tutta la gratitudine per Giuseppe e per gli operatori del progetto: “Tutto è stato nuovo per me: la lingua, la gente, la mentalità e le tradizioni. Ho avuto difficoltà specialmente i primi tempi, soprattutto perché non parlavo la lingua. Una volta, mio figlio di 6 mesi è stato male, siamo dovuti andare al pronto soccorso e, senza conoscere la lingua, non so spiegare la confusione e la preoccupazione che avevo. Però Giuseppe è sempre stato accanto aiutandoci a risolvere varie problematiche, e anche il progetto ha aiutato tanto: ha sicuramente contribuito e e semplificato la mia integrazione in società. Per fortuna che non ero da sola!”
È meraviglioso ascoltare come parli in italiano ora della sua difficoltà iniziale legata proprio alla lingua: vedere la sua forza, la sua tenacia.
Anche O. ha vissuto con una famiglia italiana parte del progetto Accoglienza diffusa, e ha attraversato un percorso di facilitazione e accompagnamento verso l’autonomia e l’indipendenza. Indipendenza che O. ha conquistato a poco a poco: “Adesso sto affittando un appartamento per me e la mia famiglia”, dice fiera.
Ma per entrambe le preoccupazioni non sono svanite del tutto: si pensa al futuro dei propri figli, al proprio futuro, completamente diverso dal futuro progettato perché lontano, ma si pensa anche chi non è venuto via dalle zone di guerra.
“Non so cosa succederà dopo e come andrà a finire, ma ora le truppe russe sono a 30 chilometri dalla mia città”. O. teme per il futuro dei suoi cari, e per quanto d’imprevedibile possa accadere; e anche A. ci confida “Un’altra angoscia e preoccupazione è pensare ai miei parenti che in questo momento ancora si trovano in Ucraina”.
È impossibile non essere coinvolti nelle loro emozioni: non si può non condividerne le preoccupazioni, le paure, ma non si può neanche non ammirarne la forza, la straordinaria capacità di resistere, di sperare anche nel disperato. Stiamo assistendo ad una crisi umanitaria, e siamo tutti chiamati a proteggere i diritti umani: il diritto ad una vita sicura, il diritto ad una casa, il diritto alla salute, il diritto allo studio, il diritto a lavoro, il diritto di sognare.
Siamo tutti coinvolti a far rispettare questi diritti, ed accogliere quanti sono costretti a scappare dal loro paese quando questi diritti da un giorno all’altro essi vengono strappati via da un uomo qualsiasi, un uomo come noi.
“Non riesco ancora ad accettare questo fatto e quello che una situazione esterna possa avere un impatto così grande sulla mia vita” dice incredula A., ed è una frase che genera rabbia, che fa molto male, perché nessuno dovrebbe essere costretto a scappare, a fuggire dalla propria casa e dai propri progetti. “La cosa più importante da considerare è non confondere il significato di profugo e immigrato. Gli immigrati hanno fatto consapevolmente questa scelta nella costruzione di una nuova vita in un Paese. Mentre invece essere un profugo è molto più complesso […] Il profugo non era pronto, non si era preparato ad immigrare. Non ci pensava nemmeno.”

Succede che è difficile fare piani, anzi ri-fare piani, soprattutto quando è così doloroso realizzare che non si possono fare progetti a lungo termine. E allora, dove non ci sono i piani, i progetti, dove non arriva la realtà, arriva la speranza, e la fiducia di un futuro più felice per le nuove generazioni.
O. quando parla di futuro pensa solo a suo figlio, al suo benessere, a dare a lui sicurezza e stabilità: “Vorrei restare in Italia in modo che mio figlio possa ricevere un’istruzione europea e voglio trovare un lavoro con un contratto a tempo indeterminato in modo da poter acquistare un appartamento”.
E anche per A. la salvezza della sua famiglia è al centro dei progetti futuri: “Adesso la cosa principale è proteggere i nostri bambini dalla guerra. Per questo voglio imparare la lingua italiana ad un buon livello per aver la possibilità di soddisfare autonomamente le esigenze della mia famiglia.”
Ci salutiamo così, con una frase secca e gli occhi di speranza.
“Di sogni ne ho solo uno: che la guerra finisca.”