Ucraina, oggi va in scena l’umanità: «Io dormo sul divano, il mio letto è per loro»

Oggi è una di quelle giornate in cui pensi che il mondo sia un posto terribile, ma poi ti ricredi e cominci a pensare che sia, a volte, un posto bellissimo in cui stare. Oggi è una di quelle giornate in cui vale la pena prendersi il rischio di essere autoreferenziali in nome di qualcosa di più grande: raccontare l’umanità, una fiumana travolgente uscita da chissà dove. Il telefono dell’Albo delle famiglie accoglienti squilla ininterrottamente da stamattina, sul sito le iscrizioni per mettere a disposizione la propria casa crescono di ora in ora.


Vero, l’Ucraina è molto più vicina del Gambia o della Costa d’Avorio. Vero, le corde emotive che questa guerra ci tocca e ci fa vibrare sono molte. Forse non pensavamo nemmeno di averle. Però esco da questa giornata al cardiopalma con un senso di meraviglia. Perché Maurizio oggi compie 63 anni e ha pensato bene di mettere a disposizione un suo appartamento di famiglia, nelle campagne, per chi scappa dall’Ucraina: «Per il riscaldamento nessun problema, l’acqua c’è, vado anche a preparare da mangiare». Chiama anche una donna del Kenya, vive al mare, sua figlia di undici anni parla russo e condividerebbe la sua stanza con un bambino ucraino. C’è una ragazza di Bologna, ha un bilocale sul litorale: perché lasciarlo vuoto ora che c’è bisogno? Telefona anche un campeggiatore: offre ospitalità a mamme e bambini, pure un lavoro per le donne. Poi c’è un anziano che ha una vecchia casa sulle colline: è disposto a portare letti, a sistemare la cucina, pur di dare una mano. «Io dormo sul divano, il mio letto è per loro», mi dice un’altra persona.


Ogni volta che finisco una telefonata o compilo una scheda, ho la sensazione che si accendano piccole lucine su una mappa. Quella di un territorio tante volte definito provinciale e chiuso. E che oggi, invece, sembra saper dare il meglio di sé. Mi viene in mente la nave Vlora arrivata in Puglia, dall’Albania, l’8 agosto del 1991 e le case della gente che si aprivano, proprio come oggi a Ravenna. Avevo dieci anni, lo straniamento che provai davanti a quella massa di persone disperate l’ho ancora presente. Non sapevo – ero una bambina – che superato il mare c’erano tante famiglie accoglienti, come oggi ci piace chiamarle. 
Telefona un insegnante di yoga, telefona una psicologo, telefona un signore che può pensare al trasporto. E mentre raccolgo le loro buone intenzioni, mentre assisto a un immenso spalancarsi di cuori, spero che questo concentrato di bellezza non si sgonfi come un vecchio palloncino, non si diluisca mentre i giorni passano, le emozioni scemano, la testa lascia andare e dimentica.


Perché di persone come quelle che chiamano oggi, concitate e propositive, calde e disponibili, noi ne avremmo bisogno ogni giorno. Per Momodou, che tra qualche mese uscirà dalla comunità che lo ha accolto e non sa bene dove andare. Per Favour che è rifugiata dalla Nigeria e non ha ancora un lavoro. Per Felix, che un curriculum di tutto rispetto e la patente ma, di una casa, neanche l’ombra. Per Victoria, sola con tre bambini. E per tutti i ragazzi e le ragazze per i quali spesso, nonostante la buona volontà, non abbiamo una risposta.