«The Passengers», la dignità della casa in un docu-film

Nel 2016 nel comune di Ravenna, grazie al consorzio Sol.co, nasce il progetto di cohousing denominato Housing First, letteralmente «prima la casa», con l’obiettivo di offrire un’abitazione, quale diritto primario, a chi ha perso un punto di riferimento fondamentale nella vita e non sa dove andare, si sente perso e inutile. Si tratta di un modello sviluppato con successo, negli anni ‘90 negli Stati Uniti per persone senza fissa dimora, adulte e con vari tipi di problemi e diffusosi a macchia d’olio nel nord America e in Europa.

Il progetto include la collaborazione di un’equipe che segue costantemente il soggetto e che opera per la personalizzazione dell’intervento e la centralità della persona, affinché la stessa sia integrata socialmente, tutelandone la libertà e l’autodeterminazione, in una visione non tanto assistenzialistica, ma di induzione alla crescita personale e all’indipendenza. Gli operatori offrono supporto per tutto il tempo necessario, senza limite alcuno, e ciò rappresenta un punto di forza per persone il cui trait d’union è spesso la paura dell’abbandono.

Nasce quindi l’idea di trasformare l’esperienza dell’Housing First in un documentario, un docu-film, affinché tutti possano vedere e capire più a fondo come si arriva a perdere tutto, l’importanza di ritrovare una casa e, con essa, gli affetti e dei punti di riferimento, un luogo dove tornare, di cui si possiedono le chiavi, simbolo della propria dignità. Abbiamo chiesto ai due registi, Tommaso Valente e Christian Poli, di seguito TM e CP, di raccontarci alcuni aspetti tecnici e altri psicologici riguardo alla creazione di questo film documentario.

Quando nasce la sua attività di regista e con quali obiettivi?
T.V.: «Ho cominciato a fare il regista alla fine degli anni ’90, durante gli studi universitari. All’inizio ho realizzato cortometraggi e per lungo tempo ho lavorato come aiuto regista su film di finzione. Con il tempo il cinema documentario mi ha incuriosito di più perché lo trovo più diretto, con meno filtri, e più stimolante da un punto di vista linguistico. In particolare il mio obiettivo è sempre stato quello di indagare il rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente in cui vivono, nel senso più ampio del termine».

La locandina del docu-film

Ha mai pensato che avrebbe diretto un docu-film come «The Passengers»?
C.P.: «Sinceramente no. Io arrivo dalla sceneggiatura e dalla finzione pura, quindi non pensavo che avrei diretto un film e meno che mai un film documentario. Ma ora sono ben contento di averlo fatto».

Qual è stato il suo primo pensiero quando le è stata fatta la proposta di creare The Passengers?

C.P.: «Quando Tommaso mi propose di lavorare insieme al progetto, ero sinceramente perplesso. Da un lato c’era, appunto, la mia estrazione completamente diversa rispetto a ciò che voleva realizzare, dall’altro c’era il fatto che non sapevo assolutamente nulla di ciò di cui mi stava parlando. Poi mi ha fatto vedere i primi materiali che aveva girato, mi ha raccontato cos’è l’Housing First, e mi sono convinto subito. In fondo, per quanto con linguaggi diversi, non c’è così tanta differenza tra la finzione e il documentario: si tratta di raccontare storie e in esse trovare un senso che sia utile per la nostra vita».

Perché il titolo «The Passengers»?
T.V.: «Mi piace molto la capacità evocativa di questa parola e il contrasto con l’idea di stabilità che il concetto di casa porta con sé: in questo senso la sento dinamica, come se il concetto di abitare una casa fosse ora in evoluzione ora addirittura in costruzione, e restituisce in maniera intima lo stato emotivo dei nostri protagonisti».

A livello psicologico cosa le ha lasciato questa esperienza?
C.P.: «Ci sono stati momenti in cui ho pensato che il peso delle esperienze dolorose con cui ci confrontavamo mi avrebbe lasciato dei sentimenti negativi: non nego che ho provato rabbia, rassegnazione, sconforto. Ma poi, nel complesso, mi sono sentito quasi riappacificato, perché alla fine, da tutte le storie che abbiamo raccontato, ci è rimasto tra le mani un grande senso di dignità. E anche il percepire che esistono sempre altre possibilità. Quindi fiducia, sì, una grande fiducia. Questo è quello che più di tutto mi è rimasto».

A livello tecnico quali sono state le difficoltà nella creazione del docu-film? E quali invece le cose più semplici rispetto alla regia di un altro genere?
T.V.: «A livello puramente tecnico, avendo anche fatto l’operatore di ripresa, posso dire che la cosa più difficile è stata mantenere la concentrazione durante take lunghissimi, anche di un’ora e mezza, cercando di cogliere con discrezione ma anche con evidente chiarezza i momenti emotivamente più forti e quelli più importanti a tenere le fila della storia. A livello di regia, sicuramente trovare la giusta distanza dal soggetto del film, per riuscire a non farsi travolgere dall’impatto emozionale delle storie per poterlo rendere al meglio. La cosa più semplice è sicuramente la spontaneità con cui siamo riusciti a girare, tipica di alcuni documentari, che ci ha regalato tante emozioni e, perché no, anche momenti divertenti sul set».

Mi ha colpito quanto riferito da Simone che, mandato via di casa giovanissimo dalla mamma per i suoi problemi con la droga, richiamato dalla sorella in quanto la mamma malata di SLA, l’ha seguita costantemente da solo per tre anni, dichiarando che sua mamma era una donna meravigliosa. Mi sono chiesta se le persone con questo genere di problemi siano in realtà più sensibili di altre e forse solo più deboli. Cosa ha percepito in merito durante questa esperienza?
T.V.: «Non so se siano più sensibili, sicuramente non sono più deboli. Ci vuole tanta forza per reggere a tempeste come queste, nella vita, e mantenere la bussola. Simone è una persona che ha una capacità fuori dal comune di reagire agli eventi. Dobbiamo fare lo sforzo di uscire dall’idea del “poveretto” e del “bisognoso” e renderci conto che, ciascuno di noi, ha affrontato lungo il cammino difficoltà e pericoli. Ciascuno di noi è stato sensibile, debole, ha fatto errori o ha avuto sfortuna. Alle volte il confine è davvero sottile, tra un percorso e l’altro. Sensibile, debole… sono condizioni che a livello assoluto non determinano il destino di un essere umano, sono semplificazioni che ci distraggono dall’essenza, e l’essenza secondo me è nella storia. La storia di Simone è limpida. Penso che in questa limpidezza potremmo trovare la risposta a quello che mi stai chiedendo».

Avete seguito una sceneggiatura o il progetto è nato “in divenire”?
C.P.: «Abbiamo fatto come spesso si fa nei documentari: avevamo un canovaccio e alla fine lo abbiamo stracciato e buttato via. È una cosa che ho imparato lavorando su questo progetto e su altri film simili: una sorta di sceneggiatura all’inizio è necessaria, per avere una idea del film e anche per trovare finanziamenti tramite bandi e fonti simili, ma poi, quando vai a girare, la realtà che avevi messo su carta qualche tempo prima non esiste più. E tu ti devi adeguare. Questa è la differenza più grande rispetto alla finzione: là devi creare la realtà, qui devi rapirla».

Ha come obiettivo qualche progetto simile per il futuro?
C.P.: «A me piace spaziare tra vari linguaggi (teatro, cinema di finzione, cinema documentario) oltreché dedicare parte del mio tempo all’insegnamento. Credo sia fonte di ricchezza e ti obblighi a non “sederti” su certi standard espressivi. Quindi ora sto facendo tutt’altro, ma credo che presto tornerà il momento di affrontare temi sociali col linguaggio del cinema del reale. È necessario per chi è là fuori e ha bisogno di essere raccontato, per chi guarda e anche per me.
T.V.: «Sto continuando a lavorare nel sociale. Anche se non ho in progetto un altro film simile, sicuramente continuerò ancora per un po’ a raccontare le storie delle persone che partecipano al progetto Housing First e a sviluppare con loro strumenti di narrazione. Per quanto riguarda il cinema, sicuramente proverò a fare altro ma sempre nell’ottica di cui ti parlavo prima, quella della relazione tra l’essere umano e l’ambiente, la società».