Di giorno le Alpi occidentali tra Clavière e Monginevro sono solcate da migliaia di sciatori che si godono le piste del comprensorio «La Via Lattea». Di notte, invece, sono attraversate, a ritroso, da migranti disperati che lasciano l’Italia per raggiungere la Francia. Il documentario indipendente The Milky Way-Nessuno si salva da solo di Luigi D’Alife, distribuito da OpenDDB – ultimo appuntamento del Ravenna Migration Film Festival, giovedì 27 ottobre al Cinema Jolly, Via Renato Serra 33, con inizio alle 17– racconta come il confine tra Italia e Francia sia da sempre un ponte, e mai una barriera: ieri gli italiani, oggi tantissimi africani, lo attraversano sfidando il gelo e la neve alla ricerca di un futuro migliore.
Caro Luigi, perché raccontare questa migrazione?
«Come documentarista ho una grande passione per i confini: nonostante li odi, sono un luogo interessante e necessario da raccontare, dove si manifesta la violenza del potere, ma anche la resistenza al potere. Questo mi ha spinto già in passato a fare altri documentari come Binxet-Sotto il confine che raccontava il confine tra Turchia e Siria. Terminato il lavoro, ho iniziato a leggere articoli sui giornali locali di due ragazzi, al confine tra Bardonecchia e la Francia, che, rincorsi dalla gendarmerie francese, erano caduti in un burrone e si erano fatti parecchio male. In più a novembre 2017 leggo un comunicato di Trenitalia che annuncia la chiusura delle sale passeggeri di Oulx (Francia ndr) e Bardonecchia per la presenza di migranti. Ciò mi spinge ad andare lì e capire. Così è iniziato un percorso di due anni per raccontare una storia così poco conosciuta. Alla fine del 2018 sono entrato a far parte della produzione Smk Videofactory con cui iniziato le riprese, terminate a maggio 2019».
I migranti che travalicano le Alpi, italiani e francesi che li soccorrono, sembrano dirci che la legge di umanità vien prima di qualsiasi confine politico, di qualsiasi trattato internazionale.
«Mi sono reso conto che le Alpi lì non sono mai state sentite come una barriera, ma un collegamento. Quelle popolazioni hanno una lunga storia di pratiche di mutuo soccorso che resistono ancora oggi. Nelle testimonianze, sia dal lato italiano che francese, ricorreva questa frase: “In mare così come in montagna nessuno si lascia solo”. Per cui questa legge di umanità, come l’hai definita tu, l’abbiamo trovata in tantissimi gesti non solo degli attivisti, ma anche degli abitanti. Ci sembrava importante rendere la solidarietà un tema centrale, perché il film nasce in un momento in cui sui media si parlava di “taxi del mare” e la solidarietà era criminalizzata. Per cui era importante raccontarla. Far vedere come fosse determinante, perché io credo che se non ci fossero state persone solidali sul confine, probabilmente i morti sarebbero molti, molti di più».
Si riesce a mantenere un controllo emotivo nel filmare persone così in difficoltà?
«In verità, ci sono stati diversi momenti molto forti. Io, però, non ero solo, eravamo quasi sempre una troupe di cinque persone. Questi momenti ci hanno cementato molto come gruppo. Uno di questi è la ripresa delle ronde di soccorso fatte di notte da cittadini italiani e francesi lungo il confine: è stata molto forte a livello emotivo, perché siamo stati lì fino alle sei di mattina e faceva davvero molto freddo. A un certo punto abbiamo deciso che le telecamere dovevano tornare negli zaini perché c’era qualcosa addirittura di più importante da fare: portare le persone in sicurezza da Monginevro a Briançon. Mi ricordo quando abbiamo trovato il primo ragazzo tra i sentieri con la neve fino alle ginocchia: io aspettavo in questo luogo sicuro a Monginevro dove venivano accompagnati per poi andare fino a Briançon. Ricordo la sua faccia completamente sotto shock, quando ha sceso le scale ed è entrato in questo luogo, completamente congelato. Lì, da documentarista, è importante avere la sensibilità giusta e non utilizzare la videocamera, per costruire sempre un rapporto di fiducia. Così come la manifestazione a Monginevro, gli arresti della polizia, i fermi. La scena dura più di quaranta minuti. Dall’altro lato, però, c’è anche la frustrazione di filmare e non riuscire a strappare più persone possibili da quella sorte».
Però il film fa piazza pulita di una serie di luoghi comuni: non è vero che gli africani vogliono invadere l’Italia. Molti non ci vogliono proprio rimanere, ma fuggire verso posti migliori.
«Per tantissimi è un luogo di transito dopo un lunghissimo viaggio che dura mesi e non tutti riescono a completare, come sappiamo. Spesso la destinazione finale è la Francia, o paesi del Nord Europa, o la Germania. Però la legislazione europea, il regolamento di Dublino, fa sì che se tu arrivi in Italia e le impronte digitali ti vengono prese in Italia, dovrai rimanere qui. Per cui si crea una situazione assurda: non c’è una ripartizione condivisa tra i paesi, né si considerano volontà e necessità delle persone. Ascoltandoli ti rendi conto come ognuno ha delle storie profonde, importanti, pesanti ma anche tantissima determinazione. Ho incontrato soprattutto tanti ragazzi giovani che avevano voglia di costruirsi e studiare. Tantissimi lo considerano primario, perché studiare ti dà la possibilità di avere un futuro. Invece, arrivati in Italia sono parcheggiati tra vari centri di accoglienza e trattati alla stregua di numeri, di pacchi. Mentre per molti l’Italia è solo un paese di passaggio perché i parenti magari stanno in Francia o in Germania. Quindi credo che il miglior modo per decostruire i luoghi comuni sia parlare con le persone, conoscerli, non rimanere chiusi in certi recinti mentali dove un certo tipo di comunicazione mediatica, figlia della politica, crea un sentimento di avversione se non di odio».
Il film lega con un elegantissimo graphic novel le migrazioni dei nostri nonni in fuga dall’Italia negli anni Cinquanta a quelle odierne. Come a dire: le migrazioni sono un fenomeno di qualsiasi epoca.
«Sì. Abbiamo volute raccontare quel pezzo di storia perché, facendo le ricerche – durate un anno e mezzo- ho capito che da sempre le montagne sono luogo di migrazione. Dall’Ottocento in poi erano italiani, piemontesi, veneti, ma anche calabresi, meridionali in generale, ad attraversarle. Sono storie ancora molto presenti negli abitanti di queste montagne. Quindi a noi non interessava tanto un discorso retorico, ma da un lato porre il processo di emigrazione come universale e dall’altro generare empatia. Siamo abituati a essere sempre distaccati, sempre molto poco empatici. Invece noi volevamo raccontare le storie dei nostri nonni dentro la storia del nostro Paese perché i contesti sono diversi sì, ma tante dinamiche tipiche della frontiera sono esattamente le stesse. Per cui quella della graphic novel è una storia di fiction, ma con tanti, tanti elementi di realtà. Abbiamo selezionato tutta storie più o meno vere all’interno di una storia più grande».
Avete subito resistenze da italiani, francesi, dai migranti stessi?
«Abbiamo trovato grande disponibilità dagli abitanti, e dagli attivisti sia italiani che francesi. Non è sempre scontato perché una videocamera crea sempre una barriera tra te e gli altri e ci vuole sempre grande fiducia per abbatterla. Da parte dei migranti, più che delle resistenze, dei confronti, delle discussioni. La priorità era parlare, capire se le persone vogliono conoscere lo strumento che hai in mano e come rispettarne la volontà. Gran parte dei migranti non sono ripresi in volto per volontà loro e questo già presenta un certo tipo di condizione. Siamo stati fermati più volte sia dalla gendarmerie che dalla polizia italiana, senza però particolari problemi».
Noi italiani siamo un popolo senza memoria storica, condannato a sguazzare sempre negli stessi errori. Questo documentario, il cinema, l’arte a cosa serve? A tirarci fuori dal fango?
«Sicuramente per me il documentario, il cinema in generale è uno strumento potentissimo di conoscenza, di racconto e anche di possibilità di cambiamento. Nel suo piccolo The Milky Way ha innescato relazioni, contatti e azioni: a fine proiezione tante volte la gente alzava la mano e diceva: “Ok, ma allora noi cosa possiamo fare?” O qualcuno che si avvicinava e diceva. “Abbiamo delle coperte termiche, a chi le possiamo mandare?”. Oggi c’è grande necessità di raccontare la realtà, di analizzarla, di guardarla con occhi diversi. E credo che la cultura del documentario indipendente possa assolutamente avere una funzione di portale dimensionale: noi diciamo spesso che i documentari aprono dei portali tra diverse realtà. Il nostro lavoro è raccontare storie che possono generare empatia, ma anche azioni di cambiamento. Altrimenti non lo farei. Durante le proiezioni è stato anche interessante vedere la percezione delle persone rispetto al racconto delle migrazioni di ieri e di oggi. Ricordo questa signora a Piacenza che molto spontaneamente dice: “Una volta, gli italiani che emigravano, andavano a lavorare!”. Io rispondo: “Signora, le consiglio un libro che ho letto per prepararmi alle riprese: L’invasione, romanzo francese del 1907 di Louis Bertrand che racconta come gli invasori erano gli italiani che arrivavano a Marsiglia, e i luoghi comuni erano esattamente gli stessi: i francesi ci consideravano ladri, sfruttatori, stupratori, senza voglia di lavorare”. Abbiamo gran bisogno in questo Paese di un’informazione lavata dal fango della retorica di un certo tipo di narrazione, soprattutto del mainstream».