«Io sono tutto e a volte sono niente!». Così la fumettista e scrittrice Takoua Ben Mohamed si era presentata nell’incipit dell’intervista a due (insieme a Chaimaa Fatihi) condotta da Silvia Manzani in occasione del Pre-Festival delle Culture di Ravenna 2021. Definirsi attraverso una sola identità non è semplice e a volte neanche desiderabile per comprendere davvero la molteplicità delle culture e delle tradizioni che possono coesistere in un’unica persona. Così la Mohamed si presenta senza categorizzazioni perché nel corso degli anni ha imparato ad essere semplicemente se stessa ribellandosi alle aspettative di quanti la volevano diversa. Nel suo libro «Il mio migliore amico è fascista» con cui la scrittrice sarà ospite oggi alle 18 alla Classense di Ravenna nell’ambito di «Scritture di Frontiera», si parla di una scuola che molto spesso non accoglie le diversità, demonizzandole e rendendole pane quotidiano per pregiudizi antichi, ma anche di crescita personale e di un’amicizia che ha il potere di andare oltre la superficie delle cose.
Nel suo libro Takoua ci racconta di com’è vivere sospesa tra due mondi, quello italiano che l’ha accolta ad appena otto anni e quello tunisino che le ricorda le sue radici e ospita la sua grande e bella famiglia. Ci descrive la difficoltà nello scegliere chi essere perché questo impone la società, quella professoressa del liceo, un compagno di banco definito «fascista» perché quando le cose sono semplici, diventano anche facilmente gestibili. Ma a volte la complessità non necessariamente è sinonimo di contraddizione come neppure l’eterno dilemma che il velo islamico crea tutt’oggi in vari ambienti. Perché una ragazza che decide di indossare il velo, come in questo caso la Mohamed, debba essere associata alla sottomissione femminile, alla debolezza, a una religione, l’Islam di cui si parla troppo ma si conosce poco? Takoua, come tante donne musulmane che hanno intrapreso la scelta consapevole e intima di indossare l’hijab, rivendicano la loro libertà, la loro forte emancipazione in quanto esseri umani prima di tutto e mostrano che tutte queste identità non solo possono coesistere ma rappresentano il loro punto di forza, la loro vita. Nel libro, che descrive appunto l’avvicinarsi della scrittrice, allora adolescente, alla scelta religiosa del velo, viene anche ripercorsa una strada tortuosa fatta di sguardi d’odio, d’incomprensione, di giudizi, di dubbi che fanno vacillare ma mai crollare del tutto. Lei ha scelto di mantenere la sua identità per come lei stessa l’aveva pensata e tuttora è consapevole che la società patriarcale di qualche decade fa non sia sparita del tutto, che sono molti ancora coloro che associano il velo a una non scelta, a un obbligo e non riescono a vedere la persona che lo indossa nelle sue mille sfaccettature. A tal proposito, sostiene, manca la rappresentanza di donne musulmane che possano affermarsi in un mercato lavorativo che troppo spesso le rifiuta, soprattutto se si tratta di posizioni lavorative subordinate. Diversa, a suo dire, la situazione per molte giovani donne musulmane che stanno pian piano realizzando le loro passioni attraverso lavori indipendenti e creativi, lei ne è una prova. Ma tornando al velo come viene raccontata la scelta della scrittrice e come è stata commentata dalla stessa nell’intervista sopra citata? Iniziata come una sperimentazione, un volersi conoscere nel profondo e avvicinarsi alla sua religione, da scelta contrastata dalla famiglia per la giovane età a cui è arrivata, appena 12 anni, si è trasformata nel tempo in posizione convinta e simbolo religioso e identitario ma anche di libertà e ribellione a quanti rivolevano la “vecchia” Takoua. Dopo l’11 settembre, periodo in cui la scrittrice abitava già in Italia, le considerazioni sulla religione musulmana e sul velo si sono inasprite portando molti ad associarli impropriamente al terrorismo oltre che alimentare una diffidenza che la stessa Mohamed ha vissuto sui banchi di scuola. La testardaggine e determinazione che contraddistinguono la scrittrice e che permeano non solo il suo libro ma le parole con cui lo descrive, poggiano le basi su una famiglia forte, indipendente e attivista e su figure femminili di rilievo per lei, tra cui la madre e una delle sorelle, che si sono sempre distinte per le proteste alla dittatura tunisina prima e per volontariato e richiamo ai diritti umani poi. Crescere in un ambiente così ricco di fermento e giustizia sociale ha sicuramente reso la Mohamed ben consapevole dei suoi diritti in quanto donna, musulmana e aspirante cittadina della Repubblica Italiana. Parlando della sua lotta per avere la cittadinanza finalmente riconosciuta, Takoua non descrive solo la sua esperienza negativa con la legge e la burocrazia italiana, ma si fa portavoce di un dramma umano prima che legale, di tanti migranti di prima e seconda generazione che, pur vivendo da tanti anni in Italia, o addirittura nascendovi, devono affrontare mille vicissitudini e lunghi anni prima di essere considerati appieno cittadini italiani e di poter affermarsi lavorativamente di conseguenza. Lei si ritiene fortunata, perché a dispetto di quanti non l’hanno mai riconosciuta, sa di essere italiana e di essere anche tunisina, ha scelto una carriera artistica che può essere svolta anche al di fuori di concorsi e albi, ma le cose vanno cambiate per agevolare un sistema che non funziona e non potrà mai funzionare in futuro. Perché le giovani menti come la sua possono contribuire alla ricchezza culturale del nostro paese, un paese che necessita di leggi che riconoscano finalmente la persona e non le differenze. In fondo, scavando bene nel passato italiano, Takoua ci ricorda che molte tradizioni musulmane erano adottate anche dalle donne locali, come l’usanza di indossare il velo.
È solo che ce lo siamo dimenticato, o forse ci fa comodo pensarlo.