“È un controcampo rispetto a quello che siamo abituatati a vedere qua in Occidente”, così il regista romano Matteo Garrone ha definito il suo Io Capitano con il Leone d’Argento per la Miglior Regia all’ultima Mostra di Venezia tra le mani. Un film che rappresenterà l’Italia nella corsa agli Oscar 2024 che prende insieme di petto e di scorcio il fenomeno simbolo della nostra epoca. Usurato, banalizzato, polarizzato deformato da anni (decenni ormai) di propaganda, governativa e antigovernativa (a seconda del gran ballo elettorale del momento).
Anche così si spiega perché, sia scaltramente che saggiamente, Garrone schiva la tentazione di spostare al cinema l’ennesimo mammozzone televisivo (il tg inizia casomai sui titoli di coda del film). Pianta la macchina in Senegal e capovolge la prospettiva a 180° gradi: la retorica oppositiva, così, finisce gambe all’aria. Nessuno spazio per il ping-pong “restiamo umani”, “porti chiusi”: ora siamo noi costretti a sognare con gli occhi degli sfruttati l’Europa: la Francia soprattutto, l’Italia solo per necessità (a proposito di “non possiamo accoglierli tutti”.
Siamo, insomma, obbligati a entrare nella pelle e nei sogni di Seydoy e Moussa che girovagano per Dakar con le loro, un tempo, nostre magliette lise: Barcellona, Real Madrid, Juventus, Tottenham, cuciono la geografia pallonara della grande illusione offerta all’Africa. Due adolescenti che fingono di giocare a pallone, fingono pure di andare a scuola, in realtà si spaccano la schiena per accumulare un bel gruzzolo per fuggire. Anche se nella madrepatria, pur nelle ristrettezze, non manca loro niente: la famiglia, le sorelle, cibo, amici, eppure l’Europa conosciuta via Youtube è una sirena irresistibile. Anche se un vecchio errante di ritorno li ammonisce: quel viaggio è morte certa. Anche se la mamma di Seydou che lo obbliga a rimanere a casa, “a respirare l’aria che respiro io”.
Il sogno di diventare cantanti per “ farsi firmare gli autografi dai bianchi”, però, piega il senso di colpa materno: i due Pinocchi d’Africa saltano nottetempo su un autobus, e poi su una Jeep stipatissima, e poi su un altro caravanserraglio. Poi nel deserto a piedi, il Senegal diventa Mali che diventa Libia che diventa, in un climax di dolore e disillusione, teatro di sequestri, ricatti, torture in cella, schiavitù. Il viaggio si rovescia in agonia, morte, stenti e crudeltà di uomini su uomini, sfruttatori (sfruttati da noi) su sfruttati (da noi e dai loro sfruttatori sfruttati da noi). Negli occhi che si spengono, nelle labbra che si screpolano, nella pelle insanguinata si compie il sacrificio della nostra “patriottica” indifferenza, la mattanza legalizzata su cui l’Occidente perpetua il suo vecchio vizio di costruire il mondo come un grattacielo senza scale né ascensore.
Il più classico e tremendo viaggio di formazione (sceneggiatura dello stesso regista con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri), allora, oscilla da Dakar alle onde nere (di notte) e blu (all’alba della vita) del Mediterraneo; dalla famiglia all’isolamento, dalla prigione alla comunità per sopravvivenza.
Nel mezzo, ecco il corpo, bussola della denuncia. Il corpo che balla in un Senegal ubriaco di colori; quello che marcia e marcisce tra le dune; che si fa immortalare nei passaporti falsi; che si decompone e vola oltre la polvere del Sahara; che si spolpa (sì, letteralmente) e si incancrenisce. Il corpo torturato e ammassato in navi stracolme.

È il corpo soprattutto di Seydou (l’esordiente Seydou Sarr, Premio Marcello Mastroianni miglior attore protagonista a Venezia 80) mappa pulsante che segna le rotte dall’adolescenza alla maturità, dall’Africa all’Europa, dall’egoismo conservativo alla responsabilità comunitaria. Dal Niger a Tripoli e poi ancora in mare verso l’altrove. Dalle sorelline alla solitudine, dal complesso di Edipo a quello del diritto internazionale; da figlio (del Senegal) a padre di una stracolma nave-mondo che solca il nostro Mare. È il corpo che ci interroga, denuncia noi che respingiamo la naturalità del fenomeno migratorio con la banalità del male (leggasi “interesse nazionale”).

È la pelle che Garrone usa come una superficie di segni e simboli. Pelle che cambia, si trasforma, si sfinisce. Eppure resta la forza propulsiva, trasformativa, inarrestabile dell’Io per la costruzione di un’identità che si compie sfondando i fili spinati della legge e dell’omertà: perché i Mangiafuochi qui sono tanti e mutanti. Sono madri, profittatori, aguzzini, Caronti e Virgili, mercanti di morte dai portafogli gonfi. È nella sacrale ostensione del corpo esposto e martirizzato (vi ricordare gli scugnizzi, mutande e mitra in mano, di Gomorra?) che si dipartono tutte le rotte della salvezza, è cosi che il Capitano costringe noi che guardiamo senza vedere a distanza (di Mediterraneo) di sicurezza a riconoscere in lui noi stessi.
Ne esce fuori un film pieno di tenera violenza, un romanzo di formazione scalpitante di vita. Un J’accuse non urlato, ma sussurrato, senza tesi, con solo antitesi (noi civilizzatori dalla parte dell’inciviltà), lirico eppure incrudelito, sospeso fino alla fine sul doppio filo: realismo e favola (di Pinocchio risciacquata nel mito). Umanità e bestialità. Acqua e terra. Lì dove inizia il paese dei Balocchi. Quello che siamo diventati noi, un “hotspot stracolmo”, un “rimpatrio veloce”, un “blocco navale subito” alla volta.
Eppur, la barca di Seydou – che incontra pure l’elicottero della Guardia Costiera, balena di metallo – si muove…