Si chiama Silvia Sanchini e di mestiere fa l’educatrice. Per tanti anni ha lavorato a stretto contatto con minori stranieri non accompagnati, adolescenti cresciuti in contesti difficili, con esperienze di vita all’interno di comunità o in situazioni di affido. Arrivata a un certo punto del suo percorso, ha deciso di radunare in un libro i quindici anni di storie vissute assieme ai ragazzi che ha seguito. «Riportando tutto a casa» è il titolo di un album dei Modena City Ramblers che richiama il disco di Bob Dylan «Bring It All Back Home» ma è anche il nome del blog che Silvia ha realizzato nel 2013, così come del suo libro. Una tappa necessaria della sua vita, dato che Silvia coltiva una grande passione per la lettura e la scrittura: «Ho sempre tenuto un diario dove riportavo quello che mi succedeva e mi sono accorta di avere tante storie di vite drammatiche che meritavano di essere raccontate per fare conoscere all’esterno queste realtà e allo stesso tempo diffondere messaggi di forza e di speranza»
Tra le dieci cose che hai imparato dai ragazzi che vivono in comunità, c’è il fatto che, citando Danilo Dolci, «ciascuno cresce solo se sognato». Qual è il sogno che hai riposto e che riponi nei ragazzi con cui lavori?
«Uno degli aspetti più difficili del mio lavoro è quello di piantare oggi un seme che non sai se darà i suoi frutti domani. Solo il tempo ti dirà se hai agito nel modo giusto oppure no. Quello che spero per i miei ragazzi è che stiano bene, che si vogliano bene e che vengano amati e apprezzati dalle persone che incontrano. Mi auguro che siano capaci di costruire delle relazioni sane e non disfunzionali, che possano migliorare le loro vite, che abbiano delle opportunità e che trovino la loro strada».
Qual è l’impatto più forte che il tuo lavoro ha avuto sulla tua vita e come si riesce a mantenere una «giusta distanza», separando la passione, la vocazione e la propria vita privata dagli aspetti più professionali?
«Da sempre sono molto coinvolta in quello che faccio. Per chi svolge questo mestiere è facile mischiare il piano emotivo con quello lavorativo, soprattutto se c’è una componente personale che spinge in questa direzione, come nel mio caso. L’educatore deve lavorare molto su di sé, farsi aiutare anche da professionisti (esempio psicologi), confrontarsi sempre con i colleghi, altrimenti c’è il rischio che si faccia del male, perché questo è un lavoro che ti può prosciugare sia dal punto di vista fisico che mentale e quando non stai bene diventi nocivo per te stesso e per gli altri».
Che traccia hanno lasciato i ragazzi e le ragazze che hai seguito, nel tuo cuore, nella tua testa, nel tuo modo di essere e fare?
«Mi ritengo una persona molto fortunata. L’incontro con questi adolescenti mi ha arricchita moltissimo dal punto di vista umano, spirituale e mentale. Quello che mi ha colpito è il fatto che non si siano lasciati imbruttire dalle storie di vita difficili che hanno vissuto, ma abbiano trovato la forza per reagire e pensare in maniera positiva. Molti hanno conservato la loro bellezza interiore diventando proprio delle brave persone».
Nel libro descrivi sette tipi di educatori, da quello «fricchettone» a quello «mamma chioccia». A quali ti senti più vicina?
«Io mi considero una “mamma chioccia”. Mi piace prendermi cura dei ragazzi, difenderli, proteggerli, combattere le loro battaglie e risolvere i problemi che devono affrontare. Tuttavia a volte è bene lasciare che se la cavino da soli, senza avere sempre accanto una figura che può diventare troppo protettiva. Del resto, quando si va in bicicletta è normale sbucciarsi anche le ginocchia».
Che cosa ami più del tuo lavoro e qual è stata, nel tuo percorso, la battaglia più difficile da vincere?
«Il lavoro di educatore ti offre due lati della stessa medaglia. Da un lato hai una ricchezza dal punto di vista umano che ti riempie l’anima. Dall’altro è una professione che a livello sociale è poco riconosciuta. Quando dico che faccio l’educatrice a volte mi chiedono :“Sì, ma di mestiere cosa fai?” Forse perché tutti ci consideriamo nel nostro piccolo un pò educatori. Riguardo al mio lavoro è in corso una battaglia culturale che non è stata ancora vinta».
Ci sono stati momenti in cui gli ostacoli hanno superato la bellezza del tuo mestiere e ti sei sentita in burn-out, a un bivio, o comunque senza le energie giuste per fare il tuo lavoro?
«Ho vissuto anche io momenti difficili e quando ti capita devi fare dei passi indietro o spostare le tue energie su altro. Per esempio, io mi sono dedicata ad attività di comunicazione e ufficio stampa, sempre con i ragazzi. Credo che un buon datore di lavoro debba venirti incontro nei periodi di stress e darti la possibilità di svolgere sempre il tuo lavoro ma in altri ambiti».
Il mestiere dell’educatore in Italia è sottovalutato, sia nell’immaginario che economicamente. Cosa non si conosce e non si apprezza, di questo lavoro?
«E’ importante fare notare che dietro il mestiere dell’educatore c’è una competenza di studi. Facciamo questo lavoro perché abbiamo seguito un percorso specifico. Spesso si ignora la fatica emotiva di questa professione e il fatto che frequentiamo corsi di formazione per non smettere di imparare e rimanere aggiornati sulle tematiche di cui ci occupiamo.»
Alla presentazione del tuo libro, il 28 dicembre a Rimini, c’era anche Ahmed Mohamed, tra i protagonisti del libro. Che momento è stato, per lui e per te?
«E’ stato un momento molto emozionate e divertente. Lui è arrivato in Italia nel 2011, mentre io mi stavo laureando. Erano passati undici anni e Ahmed Mohamed nel frattempo era diventato un uomo. Adesso ha una moglie e due figli ma continuiamo a sentirci, perché tra noi è nata una bella relazione che abbiamo mantenuto nel corso del tempo e questo è uno degli aspetti più belli di chi fa il nostro mestiere».