Se non avete ancora capito chi è lo scafista, leggete (o guardate) «Libia»

Se volete capire perché oggi la Libia è proprio quella Libia lì, dei trafficanti di uomini e degli accordi con il Governo italiano, dei gommoni che partono senza che importi se affonderanno o meno, non dovreste perdervi la graphic novel omonima, «Libia» appunto, di Gianluca Costantini e Francesca Mannocchi, un libro indispensabile che ieri sera, al Teatro Rasi di Ravenna, è stato portato in scena da ErosAntEros. 

C’è un concetto chiave, al centro del racconto e dello spettacolo: quello di scafista. Un uomo descritto, nella narrazione occidentale, come alla stregua del trafficante, quello che guadagna sulla pelle e il futuro di migliaia di uomini a caccia di un sogno. Ma davvero siamo così stupidi da pensare che il trafficante, dopo essersi intascato i soldi, rischi la vita nel Mediterraneo? Davvero non abbiamo ancora capito che lo scafista, criminalizzato da noi che stiamo da questa parte, è solo un migrante come gli altri, a cui viene regalato o scontato il passaggio verso l’italia, e a cui viene messo in mano un Gps puntato verso Lampedusa? Davvero non abbiamo ancora fatto nostra l’idea che probabilmente lo scafista non è mai stato alla barra di un timone in vita sua?

Come al solito, i racconti semplificati non aiutano a capire. «Libia», invece, è complesso, estremamente complesso. Lo è nel descrivere il regime di Gheddafi e la frantumazione del Paese dopo la sua caduta (2011), lo è nel restituirci lo scenario attuale, dove non si capisce chi governa chi, dove le milizie armate hanno possesso delle banche, delle carceri, degli aeroporti, dei siti estrattivi. Dove nonostante la ricchezza, per prelevare 90 dollari bisogna aspettare una settimana, sempre se hai come amico un funzionario della banca. Dove la dittatura, per chi ne ha subito le peggiori conseguenze, ti perseguita ancora e sembra che sia sempre lì, alle tue calcagna, a spiarti e a origliare quello che dici. Dove a chi ripensa a che cos’era il Paese con Gheddafi, tocca quasi provare nostalgia, perché anche se si viveva zitti e a capo chino, soggiogati al volere di un uomo solo, almeno quell’uomo provvedeva. E dove l’unica economia che oggi forse sa rimanere in piedi, è quella del commercio di uomini.: migranti che preferiscono prendersi il rischio di morire in mare, piuttosto che morire a casa propria.

C’è un punto altissimo, nel racconto. Ed è quando la giornalista Francesca Mannocchi, interpretata da Agata Tomšič, entra in un centro di detenzione libico dove sono stipate 1200 persone. L’odore è un misto di vomito, urina, malattie mai curate, sangue rattrappito. E anche se non si riesce a respirare, Mannocchi non segue il consiglio delle guardie, che la invitano a mettersi le mani davanti alla faccia per attutire il fetore.

Perché no, io non posso dirti che puzzi dopo che hai lasciato il tuo Paese in guerra, dopo che hai visto morire tuo figlio in mare, nel primo tentativo di raggiungere l’Italia. Io non posso dirti che puzzi dopo che sei stato torturato, dopo che hai attraversato il deserto. Non posso dirti che puzzi se non mangi e non bevi, se dormi a turni, per terra, perché il posto per tutti non c’è. Se hai la scabbia, ti scortichi vivo da settimane ma nessuno viene a curarti.

Allora se in questo racconto i protagonisti, purtroppo reali, sono a rischio dignità, ecco che narrarli serve a ridargliela. La dignità è anche negli occhi di O. seduto accanto a me, che dalla Libia per fortuna non è passato ma che su un barchino in mezzo alle onde, per approdare a Lampedusa, c’è stato eccome. Sullo schermo vede il nome della sua città, in Tunisia, e la indica, come un bambino.