Parole di guerra, di angoscia, di smarrimento e separazione, parole grigie come la cenere delle macerie che ricoprono la città di Mariupol. Parole bianche di speranza, purezza e amore quelle pronunciate dalla penna di Oksana Stomina, poetessa e autrice del libro “Lettere non spedite”, che sarà presentato alla Biblioteca Classense di Ravenna oggi, sabato 23 marzo, alle ore 17, nell’ambito del Festival delle Culture 2024. Oksana, nata a Mariupol all’interno di una famiglia russofona, vive in prima persona gli orrori di una guerra senza fine laddove la distruzione e l’annientamento dell’identità culturale e individuale sembrano far parte di un tempo infinito. Oksana trova nella scrittura il suo rifugio, un modo per dare voce ad una grande verità, a parole silenziose di chi ha perso la vita, e di chi ancora sopravvive sotto le bombe o lontano dalla patria. Le sue frasi ricche di sentimenti contrastano parlano di amore, un amore che nonostante gli orrori non cessa di esistere e avvolto da speranza cerca la forza di sopravvivere.
Oksana, lei è originaria di Mariupol. Come può descriverci la città della sua infanzia rispetto alla città che è diventata oggi?
“Sono molto legata a questa città: vivace, multietnica, gioiosa e laboriosa. Anche se ho studiato altrove, dopo l’Università volevo solo tornare a Mariupol. Costruivo la città attorno a me: era fatta di luoghi storici – che cercavo di valorizzare nei miei scritti e progetti – e di persone creative e attive che formavano la mia cerchia di amici”.
Quando nasce la passione per la scrittura ed in particolar modo la scrittura di poesie in tempo di guerra?
“La poesia mi piaceva fin dall’infanzia: mia mamma scriveva delle poesie per me, ed era naturale che anche io mi esprimessi con i versi quando sono cresciuta. Scrivevo d’amore, elaborando così le mie emozioni anche nei momenti felici e difficili. Quando nel 2014 è iniziata la guerra e ho cominciato a fare volontariato ho scritto libri in prosa, in cui documentavo la storia della città e le storie degli abitanti di Mariupol. Dal febbraio del 2022 si è aggiunta anche l’esigenza di documentare i crimini di cui ero testimone durante le settimane di assedio”.
Come dovrebbe essere raccontata la guerra secondo lei? Qual è il canale comunicativo più efficace per arrivare a chi di guerra ucraina conosce solo le informazioni mediatiche?
“La guerra va raccontata con gli occhi degli aggrediti, e non con quelli della propaganda degli aggressori. Poi, quale sarà il canale preferibile lo decide ciascuno da solo: basta che a parlare siano persone ben informate e non avvelenate della propaganda russa. In Italia la prima fonte sulla guerra sono gli ucraini stessi. Ce ne sono tanti, fra diaspora e profughi. Da loro si possono avere informazioni di prima mano. Ci sono poi i saggi, i libri di narrativa e i film sul tema, sempre più numerosi nelle librerie e nelle sale italiane, con cui si possono approfondire sia il passato che l’attualità”.
Ci può raccontare un ricordo che ha del suo viaggio verso la salvezza, se così possiamo definirla?
“Partire da Mariupol assediata era estremamente difficile: intanto, non c’era nessun piano di evacuazione organizzato, nessun corridoio umanitario. In assenza di mezzi le persone cercavano di raggrupparsi e partivano con le macchine piene di gente. Così diventavano facili bersagli per la violenza dei soldati russi. Ne erano testimoni le macchine bruciate con le persone uccise dentro. Dovevamo passare oltre senza sapere se avremmo incontrato noi stessi la stessa sorte. Uno dei momenti che mi è rimasto impresso è quando all’improvviso è iniziata una nevicata, ma io avevo l’impressione che fosse la cenere, quella delle case bruciate. Razionalmente capivo che non potesse essere la cenere fuori dalla città ma la mente si rifiutava di comprendere che ero fuori da questa coltre nera”.
All’interno della sua raccolta c’è una poesia che riprende il titolo del libro “Lettere non spedite”. A chi sono dedicate queste lettere e quale messaggio portano?
“Non è una metafora: sono veramente delle lettere, che scrivo a mio marito, prigioniero di guerra dei russi. Da quando si era consegnato insieme ad altri difensori della città con la procedura di ‘extraction’, avviata il 17 maggio 2022, nonostante tutti gli accordi e la convenzione di Ginevra, non ho avuto alcuna notizia da lui. Scrivevo per lui delle poesie e le mettevo nel cassetto, in attesa del suo ritorno. Ma poi mi sono resa conto che questa esperienza era comune a tante altre donne e ho deciso a pubblicarle: così è nato questo libro”.
Viene inoltre affrontato il tema della paura e di quella zona grigia in cui si fondono senso di appartenenza e inappartenenza. Qual è il loro collegamento e come lo ha sentito sulla sua pelle?
“La città di Mariupol era per noi una fortezza, che ha resistito agli attacchi nel 2014, ed era rimasta città di frontiera: vivevamo in prossimità della linea dei fronte. Credevamo di essere pronti a tutto, ma quel che è successo con l’invasione su larga scala andava davvero oltre ogni nostra immaginazione. Le mura delle nostra case hanno ceduto, seppellendo vive persone, ma non le memorie. Da quel punto in poi la mostra fortezza siamo diventati noi stessi: esuli di Mariupol, i sopravvissuti che anche disseminati in giro per il mondo continuano ad aiutarsi a vicenda. Restando uniti, superiamo anche le sensazioni di smarrimento in cui spesso ci immergono le notizie di nuove distruzioni, come quelle degli ultimi giorni”.
Che sentimenti ha verso il futuro?
“Io ho fede nel buon senso del mondo civilizzato, dei paesi democratici che hanno come valore centrale la legalità e libertà. È nel loro interesse fermare l’espansione della Federazione Russa e non lasciare senza punzone le numerose violazioni di leggi internazionali. Quindi, credo nella vittoria del mio paese e nel ripristino della giustizia”.