Saharawi, il dramma di cui nessuno parla in un film potente di Claudio Maurici

Salka è nata tra le tende dei rifugiati in mezzo al deserto. Ora è cresciuta e ha trovato un’altra famiglia in Italia: fu una delle “Piccole Ambasciatrici di Pace”: il popolo Saharawi manda in Europa i suoi figli dal 1975, quando il Marocco occupò il suo territorio, per gridare al mondo l’ingiustizia che subisce. La regione è spaccata in due da un muro minato lungo 2700 km (due volte l’Italia) eretto dal Marocco per sfruttare illegalmente fosfati e giacimenti petroliferi di cui il territorio è ricchissimo, distruggendo così le secolari abitudini al nomadismo dei Saharawi. Un muro infinito – in arabo berm, letteralmente terrapieno – che, però, non si è meritato nemmeno una menzione in nessuna risoluzione delle Nazioni Unite sul Sahara Occidentale.

Per questo Claudio Maurici, attivista per i diritti dei rifugiati, lo ha attraversato per girare State of Rest, documentario indipendente che inaugurerà giovedì 6 ottobre, alle 17, il Ravenna Migration Film Festival organizzato da Ravenna Must Act. L’appuntamento è al cinema Jolly a via Renato Serra 33.

Caro Claudio, perché girare questo documentario?

«Banalmente una sera guardavo un servizio di Milena Gabanelli su Report (Se questa è l’Onu, puntata del 10/09/2004, Rai 3, n.d.r..), lì ho scoperto dell’esistenza di questo muro e ho detto “Ok, devo vederlo!”. Ero studente all’epoca, e mi colpiva che si parlasse di una realtà che non conosceva nessuno, neanche all’università. Così ci ho scritto la tesi di laurea. La verità, però, è che ho fatto un anno di scuola di cinema a Barcellona, e volevo fare un altro film. Ce n’è un’altra, ad esser sincero: era una scusa per fare un altro viaggio!».

Quanto è durato il lavoro?

«Dieci anni, ma a fasi alterne. È stato lungo però ne sono contento perché il film è mio, l’ho fatto io a spese mie, quindi sono economicamente “indipendente”: non ho produttore, non ho distributori, non ho niente, anche perché io faccio un altro lavoro: mi occupo dell’accoglienza dei rifugiati. La prima volta sono stato in Sahara nel gennaio 2011. Ci sono stato cinque settimane con una mia amica fotogiornalista, Linda Dorigo che ha trovato poi i protagonisti del film. Nel 2013, poi, ho girato in Italia, fuori Roma. Poi sono tornato nel 2014 nei campi profughi, l’anno dopo nella zona occupata a Dahkla (città del Sahara Occidentale e sotto il controllo del Marocco, n.d.r.). Infine, nel 2018 ho girato a Bruxelles, in un’aula della sede del Parlamento Europeo».

Nel film dentro il dramma storico emerge il dramma privato: la madre biologica invita la figlia Salka a fuggire in Italia dalla madre adottiva, non solo per testimoniare i soprusi, ma perché sa che nei campi profughi non c’è speranza per lei.

«Sì. La mia idea iniziale – quand’ero ancora studente- era completamente diversa, come spesso succede quando si fanno documentari. Poi siamo andati sul posto con Linda che ha documentato la situazione. Nei vari viaggi in quelle prime cinque settimane, ospiti di diverse famiglie, poi, abbiamo conosciuto Carmen, la madre italiana, e Salka. Io inizialmente avevo scelto una famiglia nata lì che non si era mai mossa da lì, perché pensavo che fosse più “drammatica”, più coinvolgente. Invece mi sono reso conto, insieme a Linda e ad altre persone con cui condividevo questa ossessione, che parlare di una persona con condizioni simili alle mie – Salka è italiana quanto me, abbiamo più o meno la stessa età- poteva funzionare. Per di più ho inserito nel film solo testimoni diretti dei fatti. Nel mio minuscolo ho voluto essere anche io testimone di qualcosa. Poi nell’estate del 2013 ho conosciuto una straordinaria donna: Rossana Berini che ha un’associazione e ha fatto costruire un ospedale intero per curare i disabili. Lì ho incontrato i bambini, ed ho capito che Salka, essendo stata come loro, aveva una storia potente per raccontare il Sahara occidentale che è -Spagna a parte per ragioni storiche- un angoletto di Africa che non esiste da nessuna parte. Nessuno mai parla.»

In effetti, le Nazioni Unite non sembrano voler risolvere il problema...

«Io ho letto tutte le risoluzioni sul Sahara occidentale per scrivere la tesi. Tutte. Il muro non esiste. Si parla di diritti umani, autodeterminazioni dei popoli, diritti dei Saharawi, ma il muro non c’è. Non è mai nominato. E nel 1987 era finito. A me avevano raccontato che nel 1989 un altro muro era caduto ed era stato un grande cambiamento… Ma questo è talmente enorme che se non fosse per Milena Gabanelli non ci avrei creduto!»

In effetti, il titolo State of rest, suggerisce uno stato di immobilità permanete, di quiete. Uno stato (geografico) in cui nulla cambia.

«Esattamente. Stato di quiete è associabile al “cessate il fuoco”, quelle cose che sappiamo di cosa si parla ma in realtà nessuno sa definire. In sintesi, dopo tutto quello che è successo in passato, nel Sahara dagli anni Settanta ci sono stati 16 anni di conflitto armato, che sono veramente tanti. Nel 1992 le Nazioni Unite avevano garantito un referendum in cui le persone avrebbero potuto chiedere l’autonomia completa del Sahara, e diventare regione autonoma dal Marocco. Siamo nel 2022 e non si è mai tenuto, i bambini continuano a crescere, ma non è cambiato niente. In compenso nelle zone occupate si fa una quantità spropositata di affari perché è un territorio ricchissimo di risorse e da sempre si ruba in senso colonialista: si va lì, si occupa il territorio e chiunque prende quello che vuole. Succede da decenni, ed è una questione che riguarda noi, noi europei».

Gli sfruttati che tu intervisti, infatti, mettono sul banco degli imputati proprio l’Unione Europea che, dietro una maschera di umanità, cela una feroce volontà di sfruttamento.

«Sì, è un retaggio storico, lo spiega bene il sito Western Sahara Source Watch, fondamentale per capire cosa succede in quella zona. La Spagna, che per ragioni fasciste non poteva far parte della comunità internazionale, nel 1986 vi entra. Due anni dopo, dato che è nell’Europa, comincia a rubare ai Saharawi, anche se il diritto internazionale dice che non si possono sfruttare le risorse di un territorio se uno stato non ne è sovrano, come parte integrante del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Ma il presidente spagnolo Sanchez – che non può accorgersi dello sfruttamento solo adesso- ha recentemente cambiato posizione e sostiene la causa del Marocco che vuole continuare, ovviamente, a sfruttare le risorse. I Saharawi subiscono, così, una serie infinita di promesse non mantenute e la rabbia monta. La prima volta che sono andato io non si sparava da vent’anni, dal 1991-92. Adesso si è ripreso. Purtroppo, neanche la tempistica degli eventi è fortunata: la situazione è riesplosa a fine 2020 e nessuno si è accorto di nulla, data la pandemia».

Il film sembra suggerire una coraggiosa lettura di genere: il potere occidentale è tradizionalmente maschile, gestito da uomini e consegnato ad altri uomini. Qui, invece, tre donne di età e culture diverse provano a costruire un’alternativa.

«Sì, hanno un’occasione che altri non hanno e la sfruttano. Come farei io, come faresti tu. Da un lato volevo raccontare le madri perché nei campi profughi hanno portato e portano avanti molti aspetti organizzativi, considerato che siamo nel Magreb, dove c’è una forte componente femminile che in tante altre culture limitrofe non c’è, o c’è in forma minore. Dall’altro lato va considerato però che, a parte un ministro – era la prima volta che facevo un documentario, e non avrei mai pensato di intervistarlo, ma tramite Salka ci sono riuscito- era praticamente impossibile parlare con la parte militare del Fronte Polisario, al 99% composto da uomini!»

 Come immagini, allora, il futuro di questa regione?

«La situazione è estremamente complicata e non ho soluzioni, forse perché ci sono dentro da così tanto tempo che ho una quantità di cose in testa che neanch’io riesco a vedere una soluzione, come dico nel film. Ho un’assoluta malinconia, come tutti i Saharawi: la speranza è che tornino nella loro terra, però non riesco a immaginare una fine».

Se chiudi gli occhi e torni in Africa, qual è la prima immagine che vedi?

«La prima notte nel deserto la più bella: il cielo era stellato fino alla linea dell’orizzonte. Ti dico anche l’immagine più “brutta”: una piccola tempesta di sabbia, qualche giorno prima di ripartire…».

Prenotazione necessaria al LINK:

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Per info: 0544 591876

casadelleculture@comune.ra.it

harawi

 

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