Riverso: «Sul lavoro si muore ancora troppo, non per accidentalità»

Ci sarà anche Roberto Riverso, magistrato e consigliere di Cassazione, alla tavola rotonda che, all’interno della programmazione di «Territori comuni» e, in particolare, degli eventi in commemorazione del 35esimo anniversario della strage della Mecnavi, è in programma venerdì 11 marzo alle 10 alle Artificerie Almagià di Ravenna. Col titolo «Diritto al lavoro sicuro», la mattinata vedrà come ospiti anche il sindaco di Ravenna Michele de Pascale, il presidente del Tribunale di Ravenna Michele Leoni, il procuratore capo della Repubblica di Ravenna Daniele Barberini, la segretaria generale della Cgil di Ravenna Marinella Melandri, il segretario Cisl Romagna Roberto Baroncelli e il segretario generale della Uil di Ravenna Carlo Sama. A moderare sarà Federica Moschini, assessora al Lavoro del Comune di Ravenna.

Roberto Riverso

Riverso, la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto, ma questo diritto dovrebbe essere goduto in totale sicurezza. Lei da sempre opera in favore di coloro che non godono di questo diritto, può anticiparci i temi che porterà alla tavola rotonda?
«In base alla mia esperienza, prima di magistrato ed oggi di consulente del Ministro del Lavoro, credo che ogni riflessione su questa materia debba partire dalla considerazione che in ogni lavoro c’è la persona e deve perciò tendere a riscoprire la centralità del lavoratore. Chi lavora ha diritto a non essere lasciato solo, soprattutto da parte delle istituzioni, perché la vera tutela della salute si attua sempre dando diritti e dignità a chi lavora. Occorre costruire perciò una nuova strategia dell’attenzione – una nuova politica del lavoro – che metta al centro chi lavora, invertendo la tendenza che ha preso piede negli ultimi decenni e che ha mortificato i diritti dei lavoratori e dei più deboli del rapporto in nome di altre priorità e parole d’ordine. In particolare, va considerato che nel settore della sicurezza noi non abbiamo, com’è noto, un problema di regole protettive. Le regole in materia di prevenzione ci sono e si fondano su principi anche avanzati di tutela, di provenienza europea. Noi abbiamo, piuttosto, un problema di effettività delle norme: ed abbiamo quindi il problema di ridurre – in mille modi diversi – lo scarto enorme che esiste nel mondo del lavoro tra le  regole e la loro effettiva applicazione. Come confermano l’Ispettorato del lavoro e l’INAIL, all’esito dei loro accertamenti ispettivi, emergono percentuali elevatissime di illegalità, che arrivano ad oltre l’85% delle imprese ispezionate. E questo noi non lo possiamo accettare. Perché molte di queste illegalità rappresentano il brodo di coltura degli incidenti: creano una falsa rappresentazione della realtà, l’idea esteriore di un lavoro sicuro, che tale invece non è tale ed arriva fino ad uccidere chi lavora. Ed è su questo snodo cruciale dell’ineffettività che occorre intervenire, per garantire l’applicazione delle regole all’interno dei luoghi di lavoro e potenziare la strategia di prevenzione. Da una parte, attraverso maggiori ispezioni e sanzioni; dall’altra parte, attraverso investimenti tecnologici, incentivi ed assistenza, soprattutto alle piccole e medie imprese, dove avvengono più spesso gli infortuni».

In un’intervista lei dichiarò che «non si tutela la sicurezza se non si tutela la stabilità e la qualità del lavoro». Può dirci di più rispetto a ciò che intendeva?
«Occorre considerare, in proposito, che un ulteriore fattore che riveste fondamentale importanza, anche sotto il profilo della prevenzione, riguarda la tutela circolare dei diritti del lavoro. La vera prevenzione della salute si attua attraverso i diritti riconoscendo cioè equilibrio, tutele individuali e collettive, nel rapporto di lavoro. Il rispetto di orari, riposi e salari; la formazione, la professionalità, la stabilità nell’impiego, rappresentano la necessaria precondizione per un lavoro sicuro e dignitoso. Il lavoratore precario non attua nessuna forma di autotutela e autoprotezione; ed è anzi disposto a lavorare a qualsiasi condizione anche di insicurezza, pur di non perdere il rapporto e di essere riconfermato nell’impiego. I diritti del lavoro si tengono perciò assieme, dall’inizio alla fine: e nulla è più dipendente da tutti gli altri diritti come quello alla salute. Per arginare gli infortuni sul lavoro che in Italia riguardano il 2,6 % del PIL dobbiamo chiederci non solo perché, ma anche chi muore di lavoro. Il lavoro uccide e ferisce più uomini che donne, più al sud che al nord, più in agricoltura e edilizia che in fabbrica; chi è addetto a macchine e impianti più che in uffici; colpisce i lavoratori in nero e quelli in grigio, fittiziamente regolari, negli appalti e nei subappalti, chi ha paura a rivendicare il proprio diritto alla salute, alla vita, alla dignità. Ecco perché si impone un collegamento normativo con le nuove norme in materia di appalti, non solo nei lavori pubblici, e di rappresentanza dei lavoratori.  Come è scritto nella Dichiarazione ILO del 1944, il lavoro non è una merce che può essere scambiata, ceduta, subappaltata, parcellizzata, sottoposta a scadenza. Chi lavora ha diritto non va perciò lasciato solo; questo è un altro fondamentale tassello, che attiene all’importanza della tutela collettiva, sindacale, del lavoro; e del dialogo sociale, che deve rappresentare sempre più un elemento di forza attorno a cui costruire gli interventi da mettere in campo per fronteggiare e prevenire in maniera adeguata il rischio di infortuni che purtroppo rimangono costanti. Proprio la declinazione pratica del “dialogo sociale” ha consentito alle parti sociali – nel corso della pandemia – di sottoscrivere importanti protocolli condivisi per prevenire e limitare il rischio di contagio da Covid-19 e consentire la ripresa delle attività produttive e commerciali in sicurezza».

In conclusione, che cosa auspica emerga, venerdì a Ravenna?
«Mi auguro che da questo importante confronto che si tiene nella nostra città venga una presa d’atto sulla complessità del tema che interroghi i vari interlocutori su quello che ciascuno di essi possa fare in concreto, nel proprio ambito, nei fatti e non a parole, per scongiurare la lista infinita dei morti sul lavoro anche sul nostro territorio. Perché ciò accada occorre partire dalla consapevolezza che gli infortuni sul lavoro hanno cause precise, di natura organizzativa. Non bisogna invece pensare che derivino da accidentalità o da responsabilità del lavoratore, come si tende troppo spesso a fare, per rimuovere le reali responsabilità. Gli infortuni e le malattie professionali (bisogna parlare sempre di entrambi) hanno invece cause organizzative, essendo espressione di illegalità e di cattiva organizzazione. Bisogna agire su queste cause per scongiurarle e rimuoverle prima dell’evento, e combattere la cultura del fatalismo che si esprime anche nelle parole, come quando parliamo di morti bianche, quasi fossero meno gravi di quelle che dipendono da altri delitti. Ed allora forse merita pure di essere ricordato, per quanto si tratti di ritornare ai fondamentali, che i lavoratori sono sempre i soggetti da proteggere; la loro distrazione, l’errore, sono alla base dello stesso sistema di prevenzione; che deve proteggerli proprio per scongiurare che questi atteggiamenti (che sono umani) si traducano in tragedie. La persona che lavora, in altri termini, ha diritto di essere tutelata anche da e contro se stessa: ed in periodi come questi, anche per le questioni legate al Covid, questa fondamentale responsabilità datoriale merita di essere evidenziata. Perché è quella su cui si basa la filosofia che deve animare la vera sicurezza sul lavoro, quella che noi dobbiamo ancora compiutamente realizzare.  Si tratta in sostanza di capire che la risposta preponderante (ai fini della riduzione degli infortuni e delle patologie professionali ed ambientali) sta nel ruolo della prevenzione del rischio negli ambienti di lavoro e di vita. E che la prevenzione è frutto di organizzazione, di buone prassi organizzative che fanno capo al datore di lavoro.  Come sistema pubblico dobbiamo invece tornare (dopo gli anni dei tagli anche in questo settore) ad investire di più in prevenzione (informazione, formazione, assistenza e vigilanza), soprattutto in quella primaria che richiede la rimozione a monte dei fattori di rischio per la sicurezza di chi lavora, senza traslarli impropriamente su chi deve essere protetto».