«Razza», parola ancora discriminante. Ruocco: «Il problema è politico, prima che culturale»

«Razze in teoria: alle origini del pensiero razzista moderno» è il titolo della lezione seminariale in programma oggi alle ore 16.30 nella sede centrale dell’Università di Parma. A tenere la lezione sarà Giovanni Ruocco, docente di Pensiero politico della colonizzazione e della decolonizzazione presso l’Università di Roma «La Sapienza», coordinato dal professor Fausto Pagnotta, dell’Università di Parma. Partendo da uno dei suoi ultimi libri, «Razze in teoria» (Quodlibet Studio, 2017), Ruocco approfondirà in una prospettiva storico-politica, «come si è costruito nell’Ottocento il discorso sulla razza e come questo abiti ancora l’immaginario comune delle società contemporanee».
Professor Ruocco, in quale momento storico si inizia a parlare di razze?
«Le prime teorizzazioni sulle razze risalgono alla seconda metà del Settecento, inizio Ottocento. Anche se si trattava di studi e analisi di impronta biologica ed etno-antropologica, ben diversi dalle teorie politiche sulle razze che si svilupperanno a partire dalla fine dell’Ottocento e nella prima metà del XX secolo, era pur sempre un modo nuovo di catalizzare l’attenzione sull’esistenza presunta e sulla conseguente classificazione di differenze “naturali” originarie di diversi gruppi umani all’interno della specie, differenze che non avevano però nessuna evidenza scientifica. Dunque, se è in quel primo momento che si inizia ad usare il termine razza in questa chiave (un uso già allora appunto discriminatorio, in quanto fondato sull’affermazione implicita della superiorità assoluta dei bianchi europei e occidentali), in seguito questa parola diventerà uno strumento politico esplicito per autorizzare e progettare forme di discriminazione sociale strutturali, fino all’esito più evidente e terribile delle misure politiche adottate dal nazismo. Oggi è un termine generalmente respinto nel discorso pubblico, anche se c’è chi continua a farne colpevolmente uso attribuendo ancora alle razze una valenza ‘oggettiva’. Un modo efficace di dare forza ai concetti politici, “depurandoli” da profili negativi, è sempre quello di cercare di offrire loro una connotazione scientifica, naturale, oggettiva. L’unico uso corretto del termine è, a mio avviso, quello consapevole del fatto che esse effettivamente esistono, ancora oggi, come una costruzione della società, fortemente capaci in tal senso di produrre effetti sociali radicalmente discriminatori».

Nel suo libro «Razze in teoria» lei afferma che «il concetto di razza abita ancora l’immaginario comune delle società contemporanee». Ci spieghi meglio
«L’immaginario comune nel mondo è tuttora di matrice coloniale. Le società contemporanee si basano su rappresentazioni visive legate ancora a un concetto discriminante di razza. Nel suo libro “La pelle giusta”, pubblicato negli anni Novanta del Novecento, l’antropologa Paola Tabet descrive uno studio fatto su un campione di bambini della scuola primaria, i quali, invitati a scrivere su temi provocatori – come per esempio “se i tuoi genitori fossero neri?” – in molti, da Bolzano a Messina, hanno dato risposte come “li ucciderei”, “me ne vergognerei”, “cercherei di aiutarli”. Tutto questo proviene evidentemente da un immaginario comune. Se vediamo un uomo o una donna con la pelle scura, tendiamo ancora implicitamente ad associarli a chi arriva da paesi lontani attraversando mare; oppure ci vengono in mente i leoni, la savana, il caldo asfissiante, le capanne. Come se per la nostra società queste persone, ancora oggi, fossero proprio questo».

In che modo si può cambiare pensiero e invertire la rotta?
«Il problema è politico, prima ancora che culturale. Se la politica alimenta una società razzista, in cui il nero continua ad essere respinto, sottopagato, sfruttato, insomma discriminato ed oppresso, allora l’educazione e la formazione scolastica non potranno fare molto. A proposito della colonia, Frantz Fanon dice che lì essere nero e povero sono due condizioni sovrapposte, e questo è quello che continua ad avvenire nella nostra società. Ma anche l’informazione e i giornali dovrebbero comunque cambiare i toni e i modi di una comunicazione politica che fomenta le discriminazioni, nella quale chi è del sud Italia porta sempre l’etichetta di mafioso e chi è straniero sarà sicuramente arrivato nel nostro Paese per rubarci il lavoro, o semplicemente si stigmatizza qualcuno o qualcuna in sé per la nazionalità di provenienza».

L’uso dei social e di internet soprattutto tra i giovani in che modo incide nell’immaginario comune?
«La comunicazione su internet o sui social media non è più di tanto controllabile. E i social, così come internet, in generale non hanno forme di mediazione. Se quindi prima si avvertiva l’esistenza di limiti nell’esercizio della parola pubblica, oggi, davanti a una sempre più ampia possibilità di esprimersi e di comunicare, manca una funzione di intermediazione e un indirizzo pedagogico chiari. Ma può anche capitare, a volte, che i ragazzi utilizzino nei confronti di un amico l’espressione ‘negro’ senza preconcetti, non come una forma di disprezzo; in quel momento la carica discriminatrice contenuta nel termine può addirittura arrivare a depotenziarsi. Tutto dipende sempre dai contesti sociali e storici in cui i pregiudizi maturano e sono utilizzati. Il problema non sono tanto le parole che usiamo, ma quali rapporti sociali e di potere esse dissimulano e rappresentano».