Princess fa il mestiere più antico nel mondo, in un bosco che esiste dalle origini del mondo. Amazzone clandestina, neanche ventenne, corazzata in parrucca rosa e shorts, scorribanda affamata di soldi tra pini e sterpi dove si vende a prezzi stracciati. Già, i soldi unico strumento di emancipazione per intortare clienti bavosi, adescatori, polizia, perfino le sue stesse compagne . «Non posso fare le cose gratis». «Perché?». «Perché non voglio essere usata», urla a più riprese.
Film di apertura, tra gli applausi, alla Mostra del Cinema di Venezia 2022, sezione Orizzonti, in sala dal 17 Novembre, Roberto de Paolis nel suo Princess (Young Film, Indigo Films con Rai Cinema) mescola autobiografia e finzione senza spolverate di pietismo commiseratorio: «Princess effettivamente sono io, è anche la mia storia» dice Gloria Kevin, nigeriana, venticinquenne al debutto da attrice.
Il regista romano torna ai margini della città dopo la Tor Vergata dei Cuori Puri (2017), e indora questo sconsolato cinema del reale con fiocchi di fiabesco: il bosco tra Ostia e Ladispoli si anima così di sacrifici animali, animismo, antagonisti e aiutanti, poliziotti a cavallo, e la fantasmagoria di un “principe azzurro” che verrà. Uno «sposalizio tra documentario e finzione» per il cineasta che firma la sceneggiatura insieme alle vere prostitute. In effetti Corrado (un impeccabile e solitario Lino Musella) arriva per donare a Princess il diritto a un altrove, intestandosi i migliori momenti del film: così la ragazza concepisce che oltre l’amor proprio, conta quello per gli animali, che nel bosco oltre il sesso sbocciano funghi-fiori, e che oltre c’è il mare, con bar pieni di panini, torte e caramelle dove si può cantare Un friccico ner core e non solo gospel. Ma anche che la strada non serve solo per adescare clienti a piedi, ma che per può oziare a zonzo in un parcheggio, comodamente dentro una macchina, e che si può fare l’amore, sdraiati, in un caldo letto matrimoniale.
De Paolis sacrifica brillantemente, dunque, la sua autorialità scegliendo gli occhi e la pelle delle sfruttate. Ma l’anarchia emotiva della sceneggiatura gioca a carte (troppo) scoperte con Terra di mezzo di Matteo Garrone (sguardo più “compatto” sulla prostituzione romana) senza esorcizzare del tutto il fantasma della Cabiria felliniana. La sensazione finale è che la love story rimane una sospensione lirica poco amalgamata col contesto. Perché altrove la camera vaga senza meta, come le sue protagoniste, in questa selva dantesca, culla e minaccia, senza una bussola. I generi sfiorati, così, diventano troppi – il documentario “fiabesco”, il dramma sociale, il romanzo collettivo, il macchiettismo dei caratteri (il cocainomane in Ferrari, il tassista bavoso che spoglia Princess e scappa)- e si sfilacciano nella rigidezza di dialoghi a volte estenuanti e troppo “recitati”.
Dunque, partendo dal reale De Paolis giunge (inconsciamente) a tradirlo: la neutralità di sguardo delle intenzioni si trasforma in un umanitarismo esondante ricco di piani sequenza a spalla, troppo accorati, troppo “reali”, troppo addosso ai personaggi per rimanere verosimili.
Resta il rabbioso e autentico vitalismo di Princess che ride dei suoi guai, canta per stornarli, sogna, urla, piange nella pioggia, vivendo in una continua dissociazione: corpo/psiche, relazione e sfruttamento, amore e sesso, sciamanesimo e Dio. In attesa di riallacciare i continenti (interiori), di riconnettere Italia e Nigeria. In attesa soprattutto, forse, di un Paese dove ci sia inclusione piena e non integrazione da prima pagina che copre il peggiore degli sfruttamenti.