Ecco la seconda puntata della testimonianza di Adnan Nasar, 18 anni, pachistano, che ha scelto di lasciarci la sua testimonianza sulla celebre rotta balcanica, dove «the game» (così viene chiamato) è riuscire ad attraversare i confini dei vari Stati per raggiungere l’Italia (qui potete leggere la prima puntata).
«Siamo ripartiti da Atene, eravamo in sei. Per arrivare in Albania abbiamo camminato almeno 400 chilometri, il resto lo abbiamo fatto in autobus. Lo zaino che mi ero portato era troppo pesante, almeno 15 chili. Lo avevo caricato di dolci, di acqua, del sacco a pelo. Ci abbiamo provato tre volte, a passare di là. Tre volte ci hanno respinti. Non avevamo scelta che camminare nel fiume, con l’acqua fino al petto. È stata lunghissima: ci siamo incamminati alle cinque di mattina, siamo usciti alle undici di sera. L’acqua era gelida, era inverno: eravamo fradici, si erano bagnate molte delle cose da mangiare. Quando siamo usciti dal fiume, eravamo in Albania: un ragazzo ci ha fatto dormire in una stalla, dove siamo rimasti anche il giorno dopo. Ci è costato 300 euro a testa. Almeno ci ha accompagnati fino alla stazione più vicina, dove abbiamo comprato i biglietti del bus che ci avrebbe portati nel punto più vicino al confine con il Montenegro. Il viaggio è durato sette ore, ma per passare di là bisognava camminare ancora molto. Per un po’ abbiamo seguito una ferrovia, poi però bisognava attraversare una montagna.
Pioveva, era buio pesto, non si vedeva niente. Ci siamo presi per mano, ci siamo sistemati in una fila, io ero in mezzo. Non potevamo accendere le torce dei cellulari, la polizia ci avrebbe visti, vedevamo la caserma poco più in là. La pioggia era incessante, era freddo. In cima alla montagna c’era il filo spinato, per oltrepassarlo abbiamo usato dei pezzi di legno, con cui abbiamo costruito una scala. Prima, abbiamo buttato gli zaini di là, poi lo abbiamo superato, siamo giovani e agili. Quando siamo arrivati in Montenegro tirava un vento gelido, abbiamo dormito accovacciati sulle ginocchia, coprendoci con dei sacchi dell’immondizia, perché la terra era bagnata. Eravamo così stanchi che siamo riusciti a dormire senza stenderci. La mattina dopo c’era il sole ma non potevamo proseguire, per paura che la polizia ci avrebbe intercettati. Abbiamo aspettato la sera, poi dai cellulari abbiamo prenotato due taxi, che ci hanno accompagnati in un centro di accoglienza, dove abbiamo deciso di rimanere un mese. Lì ci davano da mangiare, da bere, da dormire e per tre mesi siamo stati regolari, ci hanno dato i documenti. Noi volevamo solo riposare, eravamo tutti sporchi, tutti raffreddati. Era tempo di Ramadan, anche per questo era decisamente meglio fermarsi.
Quando siamo ripartiti, ci aspettavano 130 chilometri di cammino. Siamo stati tre giorni senza mangiare niente. Bevevamo l’acqua sporca dalle pozzanghere, la mettevamo nelle bottiglie vuote, sperando che piovesse ancora per non rimanere senza. Contro la fame strappavamo le foglie dagli alberi. Nel percorso, abbiamo bussato due volte a due case, sperando ci aprissero e ci dessero da mangiare. Ma ci hanno sempre mandati via in malo modo. Quando ci fermavamo per dormire, due di noi restavano svegli per stare allerta, per paura che arrivasse la polizia, ma anche per farsi un’idea, girando nei dintorni, di quale strada sarebbe stato bene imboccare l’indomani. Al confine con la Bosnia è andata bene, non ci hanno fermati. Ma c’era ancora da camminare 230 chilometri per arrivare al campo di Usivak, a Sarajevo, un posto orribile, pieno di persone, dove faceva freddo e bisognava mettersi in fila per mangiare. Siamo rimasti lì sei mesi.
Quando abbiamo lasciato Sarajevo, abbiamo raggiunto Bihac con l’autobus, un biglietto costava 70 euro a testa. Poi siamo ripartiti, sempre in bus, per Velika Kladusa. Passare il confine croato è stata l’esperienza più difficile della mia vita. Sono stato mandato indietro quindici volte. La polizia croata ci faceva di tutto: ci chiudeva nelle camionette con i vetri oscurati, lasciandoci senza aria e spruzzando delle sostanze che ci facevano vomitare. Dopo due ore lì dentro, ti sentivi morire, oltretutto rincaravano la dose mettendoci negli occhi uno spray che, per qualche tempo, ti impediva di vedere. Ci menavano anche con i manganelli. Una volta avevamo già percorso 70 chilometri all’interno della Croazia e ci hanno rispediti indietro. Ma non ho mai perso la forza, non ho mai mollato. Sapevamo che, per arrivare in Italia, mancavano poco più di 400 chilometri. Spesso, sulle strade croate, trovavamo degli allarmi, che suonavano al nostro passaggio, avvisando la polizia. Avevamo anche paura delle gente comune, quando vedevamo una casa, scappavamo via, perché qualcuno avrebbe potuto allertare le forze dell’ordine».
(continua….)