«Orlando», il sogno dell’Europa in bilico tra generazioni

Non basta un grande attore a fare un grande film.  Presentato fuori concorso e applauditissimo al 40° Torino Film Festival, «Orlando» di Daniele Vicari, punta di diamante del nostro cinema engagé (se questa parola ha ancora attualità), in sala dal 1 dicembre, si aggrappa all’interpretazione magistrale di Michele Placido, perché oltre c’è poco.

Già il titolo consegna le chiavi della storia a questo amabile contadino sabino (come il regista), ingrugnito e laconico. L’anziano Orlando, però, un giorno si ritrova catapultato a Bruxelles. Ma la culla del sogno europeo a lui, che non si è mai mosso dal Terminillo, consegna un figlio (rinnegato) da seppellire e una nipote tredicenne Lyse (Angelica Kazankova) di cui prendersi cura – si fa per dire- massacrandosi di lavoro. Si fa per dire perché la fanciulla è già adulta: è poliglotta, spigliata e (apparentemente) padrona di sé. Così scuote come un panno lindo il nonno, spaesato nella metropoli, sabotando tutti i suoi piani.

Il film rinnega, però, subito le premesse neorealiste – anche se sui muri di una trattoria Vicari appende i manifesti de La Ciociara e Non c’è pace tra gli ulivi – riacciuffandole solo in un finale alla Ladri di biciclette (il preferito di Ettore Scola, a cui il film è dedicato). Eppure, i tasselli per continuare a mosaicare una fenomenologia dello sfruttamento dei lavoratori nell’età postindustriale – dopo il mirifico, tra i tanti, Sole cuore amore – c’erano tutti. Ma Vicari storna subito il processo al sogno europeo, le conseguenze sulla generazione che l’ha solo subito, lo sfruttamento travestito da opportunità per working poors sempre e comunque, negli anni Cinquanta come oggi. E si butta armi e bagagli sul dramma familiare in salsa multiculturale, arando, scena dopo scena, lo steccato comunicativo che si spalanca tra una nativa digitale e un montanaro schivo, ancorato alla madre terra come unico riparo dalle minacce di una modernità indecifrabile. Il tessuto narrativo binario così rallenta sfacciatamente il ritmo senza sprigionare altri livelli di lettura; la sceneggiatura (dello stesso regista con Andrea Cedrola) essenziale, scarnificata, prende il passo strascicato del protagonista ed è risvegliata solo a sprazzi dalle schitarrate rockeggianti di Theo Teardo.

Scordatevi Diaz, Vicari ha deposto (per il momento, si spera) le armi e si è messo a guardare la catastrofe.

Orlando, così, diventa un almanacco delle reazioni emotive di un anziano che passa in un amen dalla ruralità ai grattacieli, dalla civiltà agricola a una metropoli tutta burocrazia e finanza, senza interpellare la generazione di mezzo, quella che ha “fatto” l’Europa (i quaranta-cinquantenni, in questo film, o muoiono o non riescono a comunicare con Orlando).

Sarà anche per questo che all’esordiente Kazankova è consegnato un ruolo glacialmente monodimensionale, che la ragazza esegue in modo impeccabile senza infondergli, però, né calore né rotondità. Ed è comprensibile. Ma Michele Placido, va ammesso, pare che sia sempre vissuto da cafone siloniano: regala un’interpretazione che coniuga umanità e immedesimazione (senza pregiudizio). Vicari, giustamente, lo va a stanare ogni volta che può con primi piani grandangolari per esaltare il grugno baffuto da cui pendono sigarette “solo senza filtro”, lo sguardo diffidente, il dialetto serrato e i soldi cuciti nella giacca (eccolo, il neorealismo) che non bastano mai.

Spirito di conservazione e resa al nuovo. Vecchiaia e gioventù.  Vicari confeziona un’asfittica storia di migrazione con afflato “sentimentale” come lui stesso l’ha definita. Orlando è l’uomo tra due mondi che subisce la Storia. Senza rotte, senza paga, senza più figli né campi da arare, chiamato a picconare le sue frontiere (interiori) per imparare le parole giuste da regalare a una bambina affacciata sul balcone dell’Europa che sarà. Se sarà.