«Open Arms» al Migration Film Festival: «Che cosa puoi fare tu senza aspettare gli altri?»

Barcellona. 2015. Òscar Camps, bagnino, colpito dalla fotografia del piccolo Alan Kurdi trovato morto sulle rive della Grecia, si catapulta nell’isola di Lesbo, trascinandosi il collega Gerard. Da un giorno all’altro cominciano a salvare rifugiati e migranti in mare tra l’ostilità dei locali e della polizia. Così è nata Open Arms, l’organizzazione no profit spagnola che in sei anni ha salvato più di 60 mila esseri umani. Una storia sbalordente portata in sala da Marcel Barrena in Mediterraneo-The Law of the sea, vincitore del Premio del Pubblico alla Festa del Cinema di Roma 2021, secondo appuntamento del Migration Film Festival di Ravenna Must Act giovedì 13 ottobre alle 17 al Cinema Jolly di Ravenna.

Caro Marcel, perché tu, che stavi preparando tutt’altro film, hai deciso di abbandonarlo per raccontare questa storia?

«Quando ho letto la storia di Òscar ho avuto la sensazione che ci fossero cose più grandi di un normale film, che reclamano più attenzione, che vanno al di là di un normale lavoro. Noi che facciamo film spesso abbiamo bisogno di denaro per pagare il mutuo, la scuola ai bambini, però ci sono cose che vanno oltre. E questo film, la storia di Òscar, aveva tutti questi elementi. Dovevo assolutamente raccontarla anche se è stato molto difficile. All’inizio è stato un lavoro solitario, ma sentivo di dover spendere la vita per qualcosa di speciale. E questa storia lo era».

Tu hai dichiarato “sul set avevamo tutti la sensazione di star facendo qualcosa che era di più di un film”. Questo “qualcosa in più” come lo definiresti?

«Il cinema per me  – il cinema che mi ha reso cinefilo – è il grande cinema americano. Però se devo farlo, se devo lavorare a un film per cinque anni, mi piace che sia qualcos’altro: un cinema che porti un contributo alla società, e a me come persona. Mediterraneo è questo: una riflessione, un canto di empatia che ti intrattiene per un po’ in sala, ma al tempo stesso ti apre la testa. Nella mia idea c’era la volontà di aiutare una ONG che sta facendo cose importanti e buone, e anche io, con il film, ho indirettamente dato lavoro a più di mille rifugiati che non avevano né passaporto, né lavoro, né denaro. Grazie al cinema possiamo realizzare tante cose: io non sono preparato per andare a Lesbo o in Ucraina o in Turchia, dovunque si aiutino rifugiati, la mia vita non me lo permette, però posso parlarne con un film.  Perciò tutti avevamo la sensazione che stavamo aiutando e facendo qualcos‘altro oltre che guadagnarsi lo stipendio. Tutti, dagli attori, che in Spagna sono i numeri uno, al direttore della fotografia, al fonico, tutti lavoravamo per questo. Non era semplice cinema”.

La celebre fotografia del piccolo siriano Alan Kurdi, trovato senza vita in mare il 2 Settembre 2015.

Òscar Camps stesso ti ha aiutato nella stesura del soggetto. Com’è andata la collaborazione?

«Non ha scritto perché non è uno scrittore, però eravamo in contatto tutti i giorni. Mi passava le informazioni e mi spiegava cose di concetto perché a me colpiva molto quello che succedeva. Non capivo come potesse essere possibile. Non capivo perché i soccorritori greci o la Guardia Costiera non soccorrevano i naufraghi. È una storia reale, riguarda la sua vita e ho coinvolto Òscar talmente tanto che ho voluto che comparisse nei crediti finali. Ci ha aiutato moltissimo: non solo nella preparazione, ma anche nelle riprese. Ha anche un cameo».

Nel film, l’impressione è che autorità, istituzioni politiche, Unione Europea, Guardia Costiera non siano all’altezza della situazione, ma privati, normalissimi cittadini sì.

«Esattamente. A volte pensiamo che le cose funzionino da sé, che i governi, l’Europa gestiscano la situazione, ma non è così. Perché anche i governanti sono persone come noi con paure e insicurezze, e semplicemente non sanno prendere decisioni. Io, però, non volevamo criticare gli europei, i governi, ma mostrare che non sanno gestire il fenomeno. Come in Ucraina. Ci sono sicuramente interessi in gioco, ma è una questione così complicata che non possiamo aspettare sperando che loro la sistemino perché non hanno soluzioni. E in questi grandi conflitti le persone comuni possiamo dare un aiuto. È quello che dicono  Òscar e Gerard, che erano bagnini: pensavano che l’Europa, la Grecia già stessero aiutando i migranti. Ma si dovettero rendere conto che non c’erano soccorritori, erano soli. Questa è in parte l’eroicità di questi personaggi: perché noi stessi sempre pensiamo che altri già stanno affrontando il problema. Che è la stessa sensazione che ho io quando vedo a casa mia, sul divano le immagini dall’Ucraina. Io non posso fare niente, certo. Però quei due lo hanno fatto. Loro hanno cominciato a fare qualcosa. E di questo parla questo film: “Che cosa puoi fare tu?”. E tu intendo: tu che fai il giornalista, io che faccio il regista, Òscar che fa il bagnino. Una donna che fa l’avvocato, un tassista e così via. Non potremo fermare la guerra, non potremo risolvere la questione dei rifugiati. Però possiamo parlarne, crescere in empatia, aiutarli in qualche modo. Di questo parla il film: che cosa puoi fare tu, a partire dalla tua vocazione, senza aspettare che qualcun altro faccia qualcosa?”

Una giornalista italiana (Silvana Silvestri, il Manifesto, 5 Febbraio 2022) ha scritto che Mediterraneo è “un film che si rivolge alla coscienza di ogni abitante dell’ Europa occidentale, di fronte all’ immane catastrofe dei migranti che perdono la vita in mare”. Sei d’accordo?

«Ti confesso che non mi piacciono le recensioni critiche. Almeno in Spagna quando incontro giornalisti dico sempre che non le leggo per non dargli troppa importanza. La verità però è che alla Festa del cinema di Roma (2021, n.d.r.) il film è stato accolto molto bene. Questo film non è perfetto, ci sono dei difetti, ci sono stati milioni di problemi per girarlo: avevamo programmato dieci settimane di riprese che sono diventate sei, una pazzia: è impossibile girare un film in sei settimane! Insomma, ci sono tante cose migliorabili, ma quello che mostra è importantissimo, e lo mostra con grande rispetto. Ma a volte un film cambia a seconda della gente che lo guarda: a Roma si è creata una grande connessione con la gente. Una delle migliori presentazioni avute in vita mia. Perciò noi diciamo sempre che non leggiamo la critica, che non ci importa, però, quando le recensioni sono così belle ci emozionano».

Tu volevi parlare di un fenomeno che per quanto locale, riguardante Lesbo, è universale. In Italia, però, il titolo originale è stato tradotto in Open Arms-La Legge del mare, spostando l’attenzione sulla nascita della ONG. Cosa ne pensi?

«Io sono coinvolto in tutta la preparazione del lancio del film: dal titolo, al poster, al trailer e tutto il resto. Mai nella vita in Spagna mi sarebbe passato per la testa di chiamarlo Open Arms perché in Spagna avevamo paura che potesse diventare un pamphlet schierato a difesa di una singola associazione. Però il distributore italiano ci ha spiegato che c’è così tanta polarizzazione in Italia tra chi vuole accogliere e chi respingere, che potevamo portare in sala solo il pubblico pro-accoglienza, l’altra metà non sarebbe mai venuta in ogni caso. Così mi sono fidato, è sicuramente stata una strategia di marketing, però ciò che conta è che la gente vada a vederlo. In Spagna siamo abituati che i distributori cambino film stranieri. È un fenomeno strano perché ci sono film celebri che in USA hanno un titolo e in Spagna un altro. A me è sembrato sempre assurdo perché non sai che film stai vedendo, però siamo abituati. Per cui alla fine devono confidare dei miei distributori».

Papa Francesco ha consigliato di vedere il film. Come hai preso la notizia?

«Io non sono una persona religiosa, non sono cattolico, ma il Papa ha fatto così tanto in favore dei rifugiati, è andato a Lesbo, ritengo sia molto più aperto, più ‘di sinistra’, più attento al sociale di molti che lo hanno preceduto. Perciò quando ho sentito la notizia mi ha sorpreso tantissimo, so che una delegazione del Papa ha visto la pellicola a Roma. Soprattutto perché questo film non ha mai voluto essere politico, questa pellicola parla di gente che sta in mare e altra gente che la aiuta. Un naufrago va aiutato. E basta. È la legge. Parla di gente che applica la legge, però ci sono partiti politici di ultradestra che non lo capiscono e qui in Spagna hanno ruolo poderoso e influente. Oltre al Papa, lo hanno detto il presidente del governo spagnolo, due presidenti di Catalogna, la vicepresidente del governo di Spagna e altri ancora: è tutta gente che ha capito che questo film non era politico, ma umano. Ed è geniale e meraviglioso che il cinema ottenga questo. Per cui io racconto a tutto il mondo che il Papa ha consigliato la pellicola. Per me è un onore».

Com’è possibile, secondo te, che nel 2022 dobbiamo ancora convincere persone attraverso un film a mostrare umanità verso chi scappa da situazioni terribili?

«Quando ero piccolo e studiavo a Barcellona e si parlava di razzismo o xenofobia, ma io non ero così convinto che fosse un problema serio. Però recentemente il razzismo si è sicuramente istallato nella nostra cultura come il maschilismo. Viviamo in una società malata di maschilismo e razzismo, ma il nostro lavoro è porre fine a tutto questo. E a poco a poco dobbiamo farlo. Se tu oggi vedi una partita di Champions League ci sono slogan come “No to racism”. Siamo ancora allo stesso punto: giudicare uno perché è nero, perché vuole essere una donna. Sono cose che mi fanno esplodere la testa, ma accadono. E i partiti di ultradestra le fomentano perché hanno bisogno di tenere viva la paura e creare il nemico perché il popolo senta la necessità di essere difeso. Questo è lo stesso meccanismo che applicava il fascismo o il nazismo: creare il nemico – esterno o interno non importa- per generare la paura. Ed è quello che succede con la guerra in Ucraina. Non so in Italia, ma in Spagna tutti i partiti di destra, di sinistra, di ultradestra fascista hanno appoggiato i rifugiati. Il che è magnifico. È quello che si dovrebbe fare. C’è un però: i rifugiati sono di pelle bianca o rossa.  Però gli africani no.  Perché sono di pelle nera. Viviamo in una società profondamente maschilista e razzista. Il senso di questo film è aiutarci, un poco, ad accorgercene. Il problema, però, è che questa gente sicuramente non vedrà il film, parliamo più o meno sempre tra di noi che sappiamo di dover essere buoni, aperti, femministi, ecologici. Ma al di fuori di qui è parecchio difficile. Perciò bisogna avanzare, passo dopo passo. Ho visto quello che è successo per esempio nelle elezioni italiane, con la vittoria della destra, e in Spagna anche l’ultradestra è salita tantissimo, anche se ora pare stia perdendo consensi. In Brasile anche, in Sudamerica anche. Bisogna continuare con questo percorso».

Mi hai ricordato una frase di Ettore Scola che in di una delle sue ultime interviste affermò: “il cinema non può modificare la realtà e neanche la politica, però può interferire nella mente della gente che guarda il film. Ed è un grande arma”.

«Il cinema o l’arte servono per fare un passo avanti. Io personalmente non so come affrontare il problema dei rifugiati. Ma quando l’Aids era un tabù il cinema iniziò a parlarne con Philadelfia (di Jonathan Demme, 1993, n.d.r.) anche se il regista non sapeva come curare la malattia. O se tu pensi al bullismo, quando io ero bambino, nessuno ne parlava. I professori in Spagna non ne sapevano nulla. Oggi ci sono tanti prodotti che trattano di questo tema. Ripeto, non so come risolvere il problema dei rifugiati, non saprei minimamente come affrontarlo. Però la letteratura, l’arte, il cinema ti insegna a riconoscere l’altro, il diverso. E ora l’altro per noi è Ahamad o Rasha, una dottoressa con dei figli in mare. Il fine del cinema è sempre lo stesso: umanizzare. Negli ultimi anni in Spagna si stia creando una corrente di opinione contro l’ultradestra che ripete sempre gli stessi slogan contro gli immigrati che “vengono a rubarci il lavoro”. La speranza è che nel mio piccolo il film possa contribuire a smuovere la coscienza anche di due persone. Anche di una sola».