Giornate intere a spaccarsi la schiena nella vampa estiva in campi di pomodori per qualche euro. Senza una casa (i più fortunati l’hanno trovata dentro una macchina), senza documenti, senza diritti. Ma con una ferrea speranza di riscatto. Siamo a Borgo Mezzanone, a due passi da Foggia, dove sorge la più grande delle novanta baraccopoli italiane. Qui sopravvivono migliaia di esseri umani, dal Senegal, Ghana, Nigeria, tutti giovani, ventenni, trentenni. Soprattutto uomini, ma non mancano donne e bambini. E qui il Olmo Parenti ha girato One Day One Day, documentario di grande coraggio civile che, dopo un lungo sabotaggio della catena distributiva, finalmente ora sta girando in tutta Italia. Giovedì 20 ottobre alle 17 fa tappa al Cinema Jolly di Via Renato Serra per il terzo appuntamento del Ravenna Migration Film Festival.
Caro Olmo, della situazione inumana dei migranti, del caporalato se ne parla spesso. Perché allora girarci un documentario?
«Per ignoranza mia e degli altri ragazzi che lo hanno fatto: fino a un paio di anni fa, come la gran parte delle persone, non conoscevamo questo mondo. Non sapevamo di novanta civiltà parallele nel nostro Paese dove le persone vivono in condizioni di povertà estrema e coltivano ciò che mangiamo. Poi, a maggio 2020 conosciamo questo posto grazie a un servizio televisivo di un nostro amico, Matteo Cheffe – che sarà presente in sala- sulla filiera agricola in Italia poi diventato il direttore della fotografia del film. Poco dopo avviene anche l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Per cui la coscienza nostra e di tantissimi italiani sulle vite degli africani si risveglia. Così, andiamo a manifestare in stazione centrale a Milano insieme a diecimila altre persone contro l’omicidio di Floyd. Qui con i miei amici faccio una riflessione: “Com’è possibile manifestiamo per un uomo ucciso a seimila miglia da qua e non per decine migliaia di africani che vivono a 600 Km da noi, a volte anche più vicino?”. Ce ne sono tantissime di baraccopoli come quelle di Borgo Mezzanone, anche nel Nord Italia. Per cui siamo andati senza essere pronti per girare, con l’incoscienza dei 25 26 anni, pensando di stare una settimana, girare un bel reportage da mettere poi su internet. Lo facciamo, torniamo indietro, montiamo una mezzoretta di documentario e ci rendiamo conto di aver girato una cosa assolutamente indegna delle persone che avevamo conosciuto, che non raccontava la realtà. Per cui torniamo ogni volta che avevamo abbastanza soldi per poi risalire a Milano a lavorare per poterci mantenere. Alla fine, rimaniamo lì un anno, a raccontare l’evoluzione o la mancanza di evoluzione dei personaggi che sono nel film che si sviluppa in un anno dentro la baraccopoli più grande d’Italia».
Questi ragazzi senza documenti, senza contratti, né diritti sono condannati a rimanere lì, in un posto infernale, ma hanno alternative?
«Il dramma più grande non è la povertà assoluta o il fatto che tu sia clandestino in Italia, ma proprio che tu da queste due cose non riesci ad uscirne. Il documentario racconta l’immobilità che queste persone devono vivere. Abbiamo proprio costruito il film per far delle domande e dare delle risposte. La reazione media quando una persona lo guarda è: “Mi fai vedere questa baraccopoli che a casa mia, e mi domando com’è possibile che esista”. Il resto del film è strutturato per permetterti di darti una risposta da solo, per capire cosa vuol dire vivere clandestinamente in Italia, per capire che questi ragazzi non possono affittare una casa perché non hanno una busta paga, quando la vanno a chiedere nessuno gliela dà perché non hanno documenti, quando cercano di mettere da parte dei soldi non possono aprire un conto in banca. Se devono chiedere un contratto di lavoro nessuno glielo dà. Quindi l’unico posto che rimane è la baraccopoli, che è terribile, ma paradossalmente è una benedizione perché altrimenti non saprebbero dove stare: è naturale che vivano lì, perché è frutto di necessità».
Colpisce, però, è l’estrema dignità di queste persone. C’è chi dice: «Non posso dire in Africa ai miei parenti che sto peggio di loro, devo ingoiare il mio dolore», oppure «Io darei la mia vita per l’Italia. Al 100%!».
«Sarò onesto, anche noi siamo rimasti sorpresi perché prima non è che avessi così tanti amici africani in Italia, il mio gruppo era una bolla di milanesi, oggi metà della mia rubrica è fatta da ragazzi africani che mi scrivono ogni due giorni. Questo film è costellato di considerazioni profonde, di saggezza che arriva da ragazzi che non hanno avuto un centesimo delle nostre opportunità. E pensiamo che siano persone molto semplici da un punto di vista intellettuale quando in realtà hanno una grandissima profondità nel momento se sei disposto ad affrontarli. Quando perdi la speranza perdi anche la dignità e probabilmente anche la vita in un posto come quello. Per questo il titolo è One day, one day: è il mantra che tutti si ripetono per sopravvivere, perché se ti rendi conto che quel giorno non arriverà mai, non è una vita che vale la pena vivere. Quindi si ripetono che devono mantenere la dignità, rimanere forti perché un giorno uscirai da quel posto lì e vivrai una vita normale».
Il film ha è stato rifiutato da tutti, poi è arrivato un post di Roberto Saviano e Will Media a distribuirlo. Voi, però, avete deciso di farlo girare anche per le scuole. Perché nel 2022 per un cineasta esordiente è così difficile parlare di gente che muore di fame a casa nostra?
«Penso che il tema abbia un po’ rotto le scatole: ci sembra che siano tanti anni che si parli di immigrazione e sembra abbia smesso di interessarci perché è sempre uguale a se stesso. Quindi quando se ne parla l’immagine che si accende nella testa è di centomila servizi di telegiornali, di mille reportages già fatti. Invece penso che questo sia un film profondamente diverso: è un film quasi “nazionalista”, vedi ragazzi che ti stupiscono, come qualcuno che ha vissuto sei anni dentro una macchina e dice: “è giusto che gli italiani si prendano prima cura di loro stessi”. È una cosa salviniana! O un altro che dice: “sono disposto a morire per l’Italia al 100% a servizio degli italiani”. È una cosa di destra! Ovviamente questo non è un film di destra, ma ribalta la narrazione: non vuole darti dei dati o fare campagna politica, ma racconta queste persone per quello che sono».
Insisto, perché allora tutti questi problemi di distribuzione?
«Perché il film sulla carta non è vendibile, non funziona. Qualche giorno fa uscito un documentario-evento sui giocatori del Milan (Stavamo bene insieme, n.d.r.) ed è stato il secondo film con più incasso al botteghino, perché è semplice da vendere. Se faccio una serie sui Ferragnez su Amazon, tutti la guardano perché genera pornografia entrare nella vita degli altri quando sono celebrità. Un film su ragazzi di colore poveri, che soffrono non lo vuoi vedere perché ti mette a disagio. Questo i distributori lo sanno, perché il loro business è sapere cosa funziona e cosa non funziona. Il nostro, commercialmente, non può funzionare. E quindi abbiamo fatto un film che nessuno vuole vedere, allora non ve lo faremo vedere, non vi diremo neanche di cosa parla! Lo faremo vedere solo a chi non ha ancora imparato a distogliere lo sguardo ed è ancora scevro dalle dinamiche distributive. In una scuola, in un posto di formazione. Quest’operazione ha portato un po’ di considerazione al progetto. Adesso sono sei mesi che andiamo in giro con il film tra cinema e scuole e continuiamo un’operazione che non è mai diventata semplice. Certo, facciamo riempiamo le sale ma chiamandole e mettendoci in contatto con loro. Abbiamo fatto un film su delle persone a cui non importa niente a nessuno, e quindi sta a noi guadagnarci ogni giorno l’attenzione degli spettatori. Perché per un giovane cineasta oggi in Italia è fare cinema un gran casino. È un mondo strano: completamente sovvenzionato dallo stato e da fondi europei. Per cui chi produce film non ha realmente interesse che funzionino perché guadagna qualcosa anche se il film non va bene con i tax credits sul 30% con cui bene o male paga gli stipendi. Così il produttore tende a minimizzare i rischi, a fare una cosa media che non rompe più di tanto. Se c’è un’opportunità commerciale la segue, non rischia. Sono pochissimi quelli che lo fanno. Se hai meno di trent’anni e stai approcciando a questo mondo l’unico modo per farcela è avere delle idee così fuori dal coro che costruiscono una piccola nicchia che segue quello che stai facendo. Noi che abbiamo fatto un documentario che nel suo piccolo un po’ ha girato, non potremmo mai vivere di questo. Quando mi chiedi che mestiere fai, dico che faccio documentari ma non vivo di documentari. Vivo facendo videoclip a un sacco di artisti famosi in Italia, campagne pubblicitarie, documentari su commissione. Ma per uno che ha la mia età, fare questo mestiere con tutta la passione del mondo, anche se sei bravo, non è ancora possibile nel nostro Paese».
Una curiosità cinefila: avevi dei modelli o semplicemente sei andato e hai cominciato a girare.
«Io ho una laurea in finanza, non ho mai studiato cinema, per cui non ho una cultura cinematografica rispettabile. Ho dei modelli, ma penso che il documentario sia abbastanza dissimile da tutti i riferimenti che ho. Uno è il cinema di Jonas Carpignano, per la tendenza a fare film con le persone che interpretano sé stesse. Oggi si fa sempre di più, ma che lui ha portato a un altro livello perché è riuscito a prendersi tanto tempo per fare quei film. Poi anche Michael Glawogger, documentarista tedesco che ha fatto lavori bellissimi ma di un altro genere. Ma il nostro è un documentario anche un po’ ibrido: rompe la quarta parete continuamente con la mia voce da dietro che parla con i personaggi, cosa assolutamente proibita. Invece sostengo sia giusto romperla perché così non sono un narratore, ma un personaggio. Un documentario è più reale di un film di finzione ma mai completamente reale perché c’è sempre il filtro della persona che lo fai. Quindi abbiamo voluto rendere trasparente questo filtro facendo vedere ciò che domando a loro».
Hai avuto piena disponibilità dai migranti o qualcuno ti ha visto come “l’invasore”?
«Quello è un posto di tremila persone e ovviamente tanti non sanno perché tu sia lì, o immaginano che tu sia lì per fare un servizio giornalistico come tanti altri. Ma il problema spesso è di metodo: molti giornalisti entrano nella baraccopoli, ci rimangono mezza giornata e pretendono di andarsene con un racconto completo. Quindi la percezione è che quando entra un bianco o è per fare qualcosa di illegale come andare a prostitute o vendere droga o macchine rubate, perché tutto ciò che c’è di illegale dentro il ghetto arriva dagli italiani, o che vuole portar via un pezzo di loro per venderlo al miglior offerente. Noi l’abbiamo evitato tornando molto spesso, passando molto tempo lì, anche senza riprendere, con le telecamere nello zaino. Non tutti erano d’accordo ma abbiamo filmato le persone disposte a farsi filmare, che avevano capito perché fossimo lì. In un paio di occasioni siamo stati minacciati, ci hanno aggredito, ma sono state veramente poche perché poi ci siamo spiegati».
E minacce dagli italiani?
«Il paese è completamente disabitato. Per cui minacce più che altro dai proprietari terrieri: nel film c’è un paio di scene -una per la raccolta di pomodori, un’altra in una vigna- in cui siamo entrati nei campi senza autorizzazione dei proprietari. Ovviamente ci hanno beccato, anche giustamente perché è una proprietà privata. Ma anche davanti alle nostre spiegazioni, molti sono stati abbastanza violenti. Forse si rendono conto che quello che stanno facendo non è completamente legale e la nostra presenza può essere motivo di preoccupazione. I cittadini invece sono abbastanza separati da questa realtà: anche se stai in paese devi sapere come arrivarci perché è costruita su una vecchia pista d’atterraggio dell’aeronautica Militare dismessa a metà anni Novanta; quindi è letteralmente in mezzo al nulla. Se ne parli con i foggiani, pur avendocela di fianco, non ne sono granché a conoscenza: sanno che esiste ma non ci sono mai stati. E questo non aiuta alla conoscenza. Come dice uno dei protagonisti del film: “love is to understand”. Noi in questo momento non ci capiamo perché non abbiamo luoghi dove entrare in contatto. Gran parte dei centri di accoglienza in Italia sono in mezzo al nulla perché questw sono le strutture che si possono permettere le associazioni. Con i soldi che stanziamo, chi può permettersi di affittare un set di prefabbricati in mezzo al nulla? Ma questo favorisce solo ghettizzazione: la baraccopoli nasce di fianco a un ex-CARA dismesso nel 2018 con il decreto sicurezza di Salvini. Se cacci queste persone dal centro, si mettono di fianco al centro, e non diventano mai parte della vita sociale. Se lo metti in mezzo alla città, in mezzo alla vita, saremmo tutti costretti a parlarci, a capire come coesistere. Non è un discorso di integrazione, ma di inclusione: non possiamo aspettarci che siano loro, con le loro difficoltà, a integrarsi alla nostra cultura, siamo noi a doverli includere».
L’impressione è che la comunità, la società, lo Stato, non c’è, perché non vuole esserci.
«Secondo me, l’istituzione pubblica è assolutamente cosciente dell’esistenza del fenomeno: dentro la baraccopoli la Regione Puglia porta cisterne d’acqua con fondi europei. Il posto prende fuoco una volta al mese e vanno i pompieri a spegnerlo, quindi sanno che c’è, ma a nessuno interessa risolvere il problema, ma solo a mettere toppe e procrastinare. Perché questi ragazzi non votano, quindi non è interesse di nessun politico dargli una vita dignitosa. Dovremmo renderci conto, però, che migliorare le condizioni di vita degli altri migliora le nostre. Come dicono i ragazzi, questa è dinamite che sta aspettando di esplodere. Dovremmo aspettare che esploda? Servono politiche sociali per fare in modo che queste persone non siano un peso, ma una risorsa. L’Italia è piena di posti disabitati e comuni che stanno decrescendo. Allora perché queste persone non posso diventare i mattoncini con cui costruiamo il nostro futuro? Probabilmente ci fa impressione pensare che tra cent’anni un italiano sarà un po’ più scuro di pelle. Ma mi sembra una ragione ridicola. Dobbiamo pensare a vivere prendendoci cura di tutti. Perché il benessere diffuso aiuta anche te stesso».
Un’immagine-simbolo che definisca il senso di questa esperienza.
«Uno dei protagonisti del film è morto in un incidente pochi giorni fa, investito in bicicletta tornando dal lavoro sulla statale 16 di San Severo. Quindi l’immagine più vivida che ho è il buio. È vivere al buio, senza elettricità. Molti di loro che vivono anche in altre province, in questi casolari, mangiati dall’umidità nel silenzio più assoluto perché sei in mezzo alla campagna, con solo il rumore del vento. L’ultima volta che ho visto questo ragazzo era marzo; in inverno c’è meno lavoro ed è come se tanti ragazzi si spegnessero perché quando non c’è lavoro, e quindi sfruttamento, prigioniero di questi casolari abbandonati, finisci per dormire tutto il giorno come un orso. Siamo andati a trovarlo, lo abbiamo stanato dal casolare ed è come se non avesse visto la luce per un sacco di tempo: per dieci minuti ha fatto fatica a tenere gli occhi aperti. Stiamo sprecando l’esistenza di tanti ragazzi che esistono solo a servizio delle persone che mangiano ciò che coltivi. Non hai una vita amorosa, perché sei circondato per il 90% da altri uomini e ti stai preoccupando di sopravvivere. Conti gli amici veri su un paio di dita e sai che potrebbero scomparire da un giorno all’altro. E con la famiglia non sei più in contatto».
Progetti futuri: un altro documentario su una baraccopoli?
«Non lo escludo ma non penso sia il miglior utilizzo del nostro tempo: abbiamo raccontato la baraccopoli più grande in Italia come altre novanta. Non voglio dire che vista una, viste tutte, ma il discorso è sempre un po’ quello, legato alla clandestinità. Per cui il prossimo film che ci piacerebbe fare collega il cambiamento climatico alle migrazioni e alle scelte obbligate che miliardi di persone saranno costrette a fare nei prossimi anni. Molto spesso pensiamo che si parli di migrazione e migranti da tempo; in realtà è soltanto l’inizio e per il resto delle nostre vite dovremmo fare i conti con persone che scappano da posti invivibili. Saremo sempre di più in terre sempre meno abitabili. Dovremmo rimboccarci le maniche e capire come gestire questi fenomeni. E non lo stiamo facendo. Ma quando la parte più bassa del mondo inizierà a bollire, le persone scapperanno da noi, con o senza muri».