Nogaye Ndiaye: «Ecco il razzismo che si nasconde nelle piccole aggressioni quotidiane»

A tredici anni, per Nogaye Ndiaye, essere nera era una sfortuna. Oggi, dopo aver sgombrato il campo dal razzismo interiorizzato, essere nera è una fortuna. Lo è stando al titolo del libro «Fortunatamente nera. Il risveglio di una menta colonizzata» (HarperCollins) che oggi pomeriggio, nell’ambito di Scrittura Festival e del Festival delle Culture, ha presentato alla Biblioteca Classense di Ravenna. Ma lo è soprattutto perché, quando la mente si libera di certi stereotipi e di certe gabbie, si è finalmente liberi di arrabbiarsi, di dire «non puoi trattarmi così», «questo è sbagliato», «non sei autorizzato a dirmi queste parole». 

«Praticamente devo vivere arrabbiata – ha spiegato la scrittrice, creatrice del profilo social @leregoledeldirittoperfetto – perché tanti atteggiamenti all’apparenza banali, e che possono fare anche sorridere, sono in realtà delle micro-aggressioni quotidiane che vivo sulla mia pelle da quando ero bambina e nel piccolo paese dove vivevo, cominciavo a sentire gli sguardi addosso e il peso della differenza». Qualche esempio? «Quando il controllore sale sul treno e punta dritto alle persone nere, quando ci si dà il permesso di infilare le mani nei capelli di una persona nera, attratti dalla sua acconciatura. O quando, ancora, si dà per contato che una persona nera non parli italiano». Per adattarsi e non dare nell’occhio, la Nogaye bambina aveva preso a farsi chiamare Noghina rinunciando, già da quel piccolo cambio di lettere, alla propria identità: «Alla smaniosa ricerca di un senso di appartenenza, in bilico tra varie identità, mi ero fatta schiacciare. Certi stereotipi ti entrano dentro e si radicano a tal punto che a volte le vittime di razzismo finiscono pure a doversi scusare con i razzisti».

Dopo un viaggio in Senegal, la terra della sua famiglia, Nogaye torna a farsi chiamare col suo nome: «Quel viaggio è stato l’esperienza più importante della mia vita, la scoperta delle mie radici. Per quanto non parlassi wolof e faticassi a comunicare, ricordo ancora la serenità nel camminare per strada respirando davvero, senza che nessuno ti guardi e ti giudichi, con quel senso di sentirsi come gli altri. Perché il problema vero del razzismo è che ci fa sentire soli, quando in realtà non lo siamo».

Nogaye Ndiaye, al dolore della discriminazione al ritorno a sé, ha voluto poi dare una definizione, anzi più definizioni: «Quando sono stata un anno a stuidiare in Texas, ho scoperto che tante delle cose che non mi andavano giù qualcuno le aveva studiate. Il minority stress, il white privilege, la white fragility erano tutte cose codificate, scritte nei libri, analizzate. Finalmente potevo dire che la colpa non era la mia, che non si trattava di una mia opinione, che il problema non era la mia ipersensibilità. Da quelle rilevazioni, e dalla scoperta del Senegal, non sono più stata la stessa».