Nidaa Badwan: «Io, auto-reclusa in una stanza a Gaza. Ecco i miei scatti per la libertà»

Una stanza tre metri per tre, la Striscia di Gaza, un auto-isolamento durato 100 giorni. Dal 13 marzo al primo aprile, nello spazio PR2 di via Massimo d’Azeglio a Ravenna, la fotografa Nidaa Badwan porterà la sua mostra «100 giorni di solitudine», evento inserito nella Settimana contro il razzismo del Comune di Ravenna. L’inaugurazione è prevista il 13 marzo alle ore 17 alla presenza dell’artista, che martedì 21 marzo alle 10,30, sempre al PR2, incontrerà il pubblico.

In un suo TedX ha paragonato Gaza a Macondo, la città immaginata da Garcia Marquez in «Cent’anni di solitudine». In che modo si assomigliano, questi due luoghi?

«A livello generale si assomigliano nella chiusura a livello politico. In fondo, politica e la religione hanno rovinato Macondo, un paese piccolo e n pace, rimasto isolato. A livello personale, ho sentito di essere a Macondo, perché nel libro c’è questo spazio dentro una camera, questa camera dentro una casa, questa casa dentro questa città isolata. Insomma, ho sentito che risuonava molto con la mia situazione. Ma c’è anche un altro dettaglio: ho scattato la mia prima foto dopo 100 giorni».

In che modo sono iniziati il suo attivismo e la sua ribellione a favore della libertà delle donne nella Striscia di Gaza, contro i miliziani di Hamas?
«Non ho cominciato, credo. Non ho fatto qualcosa per la libertà delle donne a Gaza, c’è stata solo una mia reazione. L’ho fatto per me, ma poi ho scoperto che in realtà era per tutti».

Nel 2013, appunto, è rimasta chiusa 20 mesi in una stanza 3 metri per 3 per denunciare la condizione delle donne in quei territori. C’era già un’idea artistica di lavorare a un progetto fotografica o no? Come è arrivata l’illuminazione?

«No, l’idea è arrivata durante l’isolamento dei giorni della solitudine. Nei primi tre mesi ho tentato il suicidio. Poi un giorno, mia madre mi lasciò dei sacchetti con verdure e frutta, dicendomi di smetterla di piangere sempre in un angolo e di darle una mano a preparare il pranzo. Dal sacchetto rotolarono fuori cavoli, cipolle, proprio nel punto in cui batteva il sole. È stata un’illuminazione. Ho preso la macchina fotografica ed ho fotografato quel momento. Nell’immagine si vede una ragazza che piange, ma non si capisce se per la cipolla o se stava già piangendo. Scontato dire che quando mia madre tornò in camera, si arrabbiò molto perché non avevo tagliato nemmeno un ortaggio. Caricai la foto su un sito per fotografi, 500xp e trovai molte persone che mi incoraggiavano ad inviare le altre. Così ho testimoniato i 20 mesi di autoreclusione con questi scatti, ogni foto necessitava di almeno 3 o 4 settimane, perché sono tutte fatte con la luce naturale (a Gaza l’elettricità è al massimo 4 ore al giorno) e quindi dovevo aspettare che il primo sole del mattino con la sua luce morbida e calda colpisse il punto preciso che avevo in mente».

Che effetto le ha fatto vedere i suoi autoritratti, una volta realizzati, e che effetto le fa oggi, dopo dieci anni, riguardarli?
«La prima volta che ho visto le foto dal vivo non è stato durante la prima mostra, a Gerusalemme, perché non avevo il permesso di andarci. Le ho viste dopo, quando sono arrivata in Italia, a Montecatini Terme. Sono stata stupita, scioccata. Ero uscita dalla camera da poco, un lungo viaggio. Poi all’interno della mostra piena di gente, quando ho visto le foto sentivo di essere tornata a casa, nella mia camera. Oggi invece è un’esperienza ed è una speranza per altre donne».

Oggi vive tra la Romagna e San Marino. Che rapporto ha con la sua terra d’origine e le sue radici?
«Non sono più potuta tornare nella mia terra d’origine. Sono nata negli Emirati Arabi, da genitori palestinesi. Quando i miei decisero di ritornare a vivere a Gaza, avevo nove anni. Da quel momento, non ho avuto più il permesso di poter tornare negli Emirati, perché avevo un passaporto palestinese. Oggi invece non posso tornare a Gaza, tra permessi burocratici e minacce, mi è impossibile. Non vedo la mia famiglia dal 2015. È come se stessi vivendo una reincarnazione: ho due vite precedenti, che ricordo, ma che non posso toccare».

 Ha mai pensato a come sarebbe stata e cambiata la sua vita se il New York Times non avesse raccontato la sua storia?
«Avrei continuato a fare l’arte. Come adesso».