Nawal Soufi e i sogni spezzati alle porte dell’Europa

Tra la rotta balcanica e le zone di crisi della frontiera polacco-bielorussa una giovane donna davvero speciale, Nawal Soufi, trova anche il tempo per fare un’intervista. Qualcuno avrà avuto modo di ascoltarla durante l’ultimo Festival delle Culture di Ravenna, all’inizio di giugno, altri potranno leggere le sue toccanti parole qui.
Nawal, lei porta il suo aiuto alle persone dimenticate, ai confini, dove, stanche e stremate, vengono respinte da tutti. Quando è stata la prima volta che ha pensato di aiutare una persona in grossa difficoltà e come è arrivata a salvare migranti in condizioni estreme?
«Ho cominciato il tutto a Catania, all’età di quattordici anni, il primo anno di liceo. Ho iniziato a interessarmi un po’ delle problematiche riguardanti la mia città, dai senza tetto alle persone che avevano subito gli sfratti, fino alla questione delle case popolari, ai migranti che attendevano risposte dalle varie sanatorie. Li accompagnavo dagli avvocati, cercavo di tradurre. Venivo da un contesto “favorevole”: i miei genitori erano impegnati nel sociale, mio padre era una di quelle persone che aiutava tantissimo quando, ad esempio, c’erano i naufragi. Nello specifico, aiutava, insieme ad altri amici, a raccogliere un importo per portare indietro le salme e far riabbracciare ai propri cari le persone morte nel Mediterraneo. La Sicilia è stata sempre una frontiera sia quando sono arrivati i miei genitori sia quando io sono cresciuta. Io sono nata in Marocco e sono arrivata in Italia quando avevo venticinque giorni».
Quale esperienza l’ha portata, quasi due mesi fa, al Festival delle Culture di Ravenna?
«In tutti questi anni mi sono occupata di migranti e di problematiche sociali. Nel 2012 sono diventata parte di quello che è il soccorso in mare. Ho collaborato con la Guardia Costiera italiana, a titolo volontario, dal 2013 fino ad oggi, perché ricevo direttamente le chiamate dal mare delle persone che partono dalla Libia, dalla Tunisia, dall’Egitto, dalla Turchia. La Guardia Costiera italiana mi ha spiegato cosa fare dopo la prima chiamata, così ho ricevuto la prima telefonata da un barcone che era in difficoltà. Avevano preso il mio numero di telefono da persone già presenti nel territorio italiano, che avevo già aiutato in altri ambiti e che avevano spiegato alle persone sul gommone che io parlo bene l’italiano e anche altre lingue. Appena ricevuta la chiamata ho subito avvisato la Guardia Costiera Italiana, una cosa che avrebbe potuto fare qualsiasi altra persona e, da lì, non ho mai più spento il telefono; funziona ventiquattr’ore su ventiquattro e quando squilla, di notte e di giorno, bisogna rispondere, non su WhatsApp perché i migranti sono in mare e ti contattano sul telefono normale. La Guardia Costiera mi ha spiegato cosa chiedere durante la chiamata e come fare a gestire il loro panico. Negli anni, poi, mi sono occupata dei campi, soprattutto di quelli della rotta balcanica, dei rifugiati in Grecia e l’ultimissimo anno l’ho vissuto alla frontiera tra la Polonia e la Bielorussia. Lì ho visto morire davanti ai miei occhi bambini, donne, ragazzi giovanissimi, con grandi sogni che si sono spezzati alle porte dell’Europa, persone che sono rimaste bloccate al confine con la Bielorussia senza visto e che tentavano di entrare tutti i giorni d’inverno per arrivare in Polonia e puntualmente venivano picchiate, pestatedalla polizia e dalla Guardia Costiera polacca per essere respinte e riportate indietro in Bielorussia. Lì, come abbiamo visto in molti video, le Guardie di frontiera bielorusse sono state molto violente, anche proprio con le donne, anche se incinte».
Che cosa può fare una Pubblica Amministrazione per migliorare la vita di persone che arrivano da luoghi dove non hanno diritti, che hanno perso tutto?
«Penso che prima della fase dell’accoglienza ci sia la fase dell’arrivo e ci dobbiamo impegnare tutti per l’apertura di corridoi umanitari. Le Pubbliche Amministrazioni dovrebbero fare pressioni per garantire a queste persone l’attraversamento delle frontiere in modo legale, dare la disponibilità ad esempio ad accogliere cento persone bloccate in Bielorussia piuttosto che cinquanta persone bloccate in Bosnia. Cercare di garantire una partenza legale e dignitosa credo sia un dovere di ogni essere umano e di ogni Amministrazione europea, anche perché gli attraversamenti di frontiera costano, sono gestiti da trafficanti di merce umana, mentre se io, attivista, metto in macchina qualcuno e lo faccio partire vengo denunciata per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Un trafficante di merce umana prende 6.000, 7.000 fino a 10.000 euro per fare un attraversamento di frontiera a delle persone che sono indebitate con tutti i loro familiari in Europa e questi soldi vanno tutte alle mafie organizzate. Aprire i corridoi umanitari aiuterebbe quindi anche a gestire i flussi migratori».
La gente comune, invece, come può attivarsi?
«La gente comune può diffondere le notizie che solitamente sono notizie di secondo piano nei Tg nazionali. Può fare eventi per sensibilizzare più persone possibili e cercare di sostenere chi è in cammino alle porte dell’Europa da anni».
Crede che l’Italia sia un Paese accogliente rispetto agli altri Stati Europei o potremmo migliorare?
«Credo che gli italiani siano un popolo di migranti che conosce bene il dolore di chi ha lasciato la propria terra d’origine, ma, ovviamente, come tutti gli altri Paesi europei, si può sempre migliorare nel campo dell’accoglienza».
Alcune piccole e grandi rivoluzioni sociali sono avvenute anche grazie ai canali social, a Internet. Lei usa molto questi canali. Crede ci sia un modo per poter aiutare maggiormente chi fugge da una guerra o chi rimane in Paesi dove non vengono rispettati anche i minimi diritti umani?
«Credo che i social media in generale possono aiutare molto le persone che fuggono da guerre, fame, cambiamenti climatici…».