
«Quando ho letto del naufragio dei giorni scorsi in Calabria, ho rivissuto quei quattro giorni in mare nel dicembre del 2016. Io sono stato fortunato, quei 185 migranti no. Ho provato dolore, soprattutto pensando ai pachistani della mia città, Gujirat, che hanno perso la vita».
Ali Haroon è un ragazzo pachistano di 25 anni, oggi accolto in famiglia a Ravenna. Dopo un ottimo percorso di integrazione tra lavoro, patente e certificazioni di lingua italiana, in questi giorni non fa che ripensare alla barca partita da Izmir, in Turchia, e naufragata a pochi miglia dalla spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Anche Ali, infatti, per arrivare in Italia ha percorso bene o male la stessa rotta: «Sono partito a piedi dal mio Paese nel mese di agosto del 2016, poi mi sono fermato in Turchia per lavorare e racimolare i soldi che mi servivano a imbarcarmi. Se non ricordo male, ho pagato circa 2mila euro per salire su una barca identica a quella che ho visto in questi giorni su Internet. Era l’8 dicembre quando, insieme a un centinaio di persone dala Siria, dal Pakistan e dall’Afghanistan, tra cui molte donne con bambini, mi sono imbarcato».
Dopo due giorni di navigazione, il motore è andato in panne: «Per fortuna, a bordo c’era un ragazzo che aveva lavorato come meccanico, e che è riuscito dopo qualche ora a ripararlo. Eravamo in balia del mare, dondolando, impauriti e terrorizzati. I trafficanti, dopo averci caricato sulla barca, erano scappati».
Dopo altri due giorni di navigazione, la barca è arrivata sulla spiaggia a pochi chilometri da Crotone: «Io ero in buone condizioni, solo raffreddato e con la testa che girava. Ci hanno accolti con cibo e acqua, poi inseriti immediatamente in un progetto di accoglienza. Io me lo sentivo, che eravamo arrivati in Italia, ma per molti di quelli che erano con me non era scontato: c’era chi ipotizzava Malta, chi altri luoghi. Ricordo, e mi viene ancora da sorridere, che un ragazzo pachistano, illudendosi che il poliziotto davanti a lui capisse, passò in un attimo dal punjabi, il nostro dialetto, all’urdu, la nostra lingua ufficiale, come se dandosi quel tono il poliziotto potesse capire. Un momento che non dimenticherò».