C’era una volta una bambina che attraversava un bosco per andare a trovare la nonna malata e incontrava per strada un lupo cattivo. Tutti conosciamo la famosa favola di “Cappuccetto Rosso”. Fa parte del patrimonio narrativo legato all’infanzia, ma pochi sanno che questa è la versione europea e che, magari, se fossimo nati in un altro paese, ci avrebbero raccontato una storia diversa. «Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se la favola fosse stata ambientata in Africa e così è nato “Thioro”, un cappuccetto rosso senegalese»: a raccontarlo è Moussa Ndiaye che, nel nel 2014, ha fondato l’Associazione Kër Théâtre Mandiaye Ndiaye per dare continuità al lavoro del padre Mandiaye, attore della compagnia Teatro delle Albe di Ravenna, scomparso nel 2014: «In Senegal non abbiamo questa favola ma ci sono racconti che hanno come protagonisti dei bambini che vogliono molto bene ai nonni, così abbiamo reinterpretato la storia, mettendo la iena invece del lupo e la savana al posto del bosco.» Da questa idea nasce uno spettacolo che unisce l’immaginario fantastico africano a quello italiano, dove il suono della tromba, strumento tipico europeo, si mescola al ritmo del tamburo senegalese. E proprio della tematica di reinventare le storie si parlerà il 13 giugno dalle 17 alle 19, alla Biblioteca Classense, dove l’antropologo Vito Antonio Aresta presenterà il suo libro «L’arte dei Griot e le performance culturali», un testo in cui l’autore racconta il grande lavoro svolto in Senegal da Mandiaye Ndiaye.
Moussa, che cosa significa reinterpretare una storia e quale è il valore aggiunto per il pubblico che la ascolta?
«Riscrivere una narrazione è un dialogo tra culture. Le persone attraverso queste nuove interpretazioni scoprono loro stesse, accorciano le distanze e si rendono conto di quante cose hanno in comune, anche se appartengono a continenti lontani. Abbiamo portato Thioro nelle scuole e i bambini, disposti in cerchio attorno agli attori, sono stati coinvolti nello spettacolo. Hanno capito che cambia l’ambientazione, ma il contenuto e i messaggi trasmessi sono gli stessi di Cappuccetto Rosso».
Qual è l’eredità artistica e culturale di suo padre?
«Mio padre era arrivato in Italia negli anni Ottanta. A Ravenna ha incontrato il Teatro delle Albe e attraverso questa compagnia è nato il confronto tra cultura europea, romagnola e senegalese. Nel 2004 è tornato in Senegal e ha avviato un progetto che aveva come obiettivi la valorizzazione delle proprie usanze, del teatro e del turismo. Sono tre elementi fondamentali. Il Senegal è un paese dove le tradizioni sono sacre ed esportare là le tecniche teatrali europee è stato un grande passo avanti, di apertura, come anche sviluppare il turismo che è fonte di nuove relazioni interpersonali. Lui è riuscito nel difficile compito di trasferire in Africa quello che ha appreso in Italia e poco dopo anche studenti stranieri hanno preso parte al progetto».
Chi sono “I Griot“ menzionati nel titolo di questo libro? Puoi dirci qualcosa di loro?
«Si possono definire una “casta”. Un insieme di uomini saggi che racchiudono la memoria collettiva di un popolo. I Griot hanno inventato la musica, i canti e la danza. Assomigliano a dei cantastorie ma, rispetto a loro, danno consigli agli abitanti del villaggio e anche a chi governa il paese. In certi stati africani, come il Senegal, esistono ancora e sono trattati con grande rispetto.»
Ci puoi dare una tua definizione di teatro?
«Direi un’interpretazione di quello che noi vediamo. Un punto di incontro tra presente, passato e futuro. Un’insieme di danze, suoni, riti e parole che avvicinano le persone. Nel mio caso, il teatro è diventato la mia vita. Viaggio molto tra Italia e Senegal. Nel mio paese continuo a portare avanti l’attività di mio padre e in Italia, oltre a curare l’aspetto organizzativo degli spettacoli, sto lavorando a progetti di cooperazione internazionale».
Ci sono nuovi obiettivi su cui stai lavorando e che pensi di raggiungere a breve?
«Voglio proseguire con quello che sto facendo adesso, come ha fatto mio padre. Mi ritengo fortunato perché ho una doppia cultura: un grande privilegio. Quando sono in Italia mi sento italiano e in Senegal mi considero senegalese. Porto nel cuore la lingua, la cucina e le abitudini italiane e ho in programma di rappresentare in Italia un altro “cappuccetto” senegalese, così, per farvelo conoscere e rendervi partecipi della cultura africana».