Contrastare lo sfruttamento lavorativo dei cittadini provenienti da Paesi terzi attraverso attività di vigilanza e azioni a tutela delle vittime. È questo il lavoro di Giulia Micozzi, funzionario a Roma dell’Organizzazione Internazionale per Migrazioni (OIM), un’agenzia collegata alle Nazioni Unite presente in 173 Paesi del mondo. Micozzi, all’inizio di agosto, è stata anche a Ravenna, una realtà impegnata sul tema: «In Italia l’OIM svolge un ruolo significativo nella lotta allo sfruttamento lavorativo e caporalato grazie anche a convenzioni/accordi di collaborazione volti a rafforzare la capacità delle autorità statali di identificare, tutelare e proteggere le vittime di tratta e sfruttamento lavorativo. In particolare, in attuazione del “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022”, dal 2020 l’OIM affianca l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) durante l’attività di vigilanza con il supporto di mediatori culturali specializzati nell’emersione e identificazione delle vittime di sfruttamento lavorativo che, in stretto coordinamento con operatori legali ed esperti tematici, garantiscono l’attivazione dei meccanismi di tutela e protezione laddove necessario».
Lavoro in nero, sottopagato e condizioni lavorative poco dignitose, spesso a discapito degli stranieri. Da dove partire per eliminare questa piaga economica e sociale?
«Lo sfruttamento lavorativo è un fenomeno diffuso su tutto il territorio nazionale che tocca i principali settori produttivi: costruzioni, logistica, manifattura, servizi di cura. È però il comparto agro-alimentare ad essere tra i settori più esposti a tale fenomeno e ad altre forme di illecito (sia amministrativo che penale) nei confronti dei lavoratori, in particolare dei lavoratori migranti. Da una parte, l’incidenza sistemica dello sfruttamento nella filiera agricola è una condizione quasi funzionale al mantenimento di un sistema di mercato (nazionale e internazionale) che fa del ribassamento del prezzo finale e della competitività del prodotto uno dei principali driver produttivi, e che di fatto, nella catena di approvvigionamento, si traduce con il progressivo ribassamento del costo della manodopera. Dall’altra, la natura stessa del lavoro agricolo, prevalentemente stagionale, spesso precarizzato e informale, aumenta il rischio di pratiche di sfruttamento nei confronti dei lavoratori. Una risposta efficace a livello politico e regolamentare non può focalizzarsi solo sul segmento finale del fenomeno, ovvero sugli interventi punitivi a posteriori quando lo sfruttamento è già in essere, ma deve necessariamente prendere in considerazione le cause che permettono la proliferazione dello sfruttamento lavorativo, in particolare, le asimmetrie di potere nella filiera agricola e le pratiche sleali di mercato che permettono una competizione senza scrupoli a discapito delle aziende agricole virtuose che si fanno promotrici di legalità e rispetto dei diritti umani, nonché del capitale umano che regge la filiera. Qualsiasi sforzo in questa direzione non può quindi prescindere da un approccio multi-stakeholders, che faccia convergere diverse istituzioni del pubblico e del privato (governo, datori di lavoro, centri per l’impiego, organizzazione internazionali, società civile) verso una responsabilità condivisa per contrastare questo fenomeno».
Che ruolo hanno le imprese agricole in questo difficile percorso, ma fondamentale per la salvaguardia del lavoro e dei diritti?
«In questo scenario, il mondo datoriale, gli attori del business internazionale e i produttori locali possono giocare un ruolo fondamentale verso una maggiore tutela dei lavoratori migranti. Il settore privato sta progressivamente prendendo atto e riconoscendo le vulnerabilità peculiari dei lavoratori migranti e sta iniziando ad affrontare i rischi legati allo sfruttamento lavorativo all’interno delle catene di approvvigionamento nazionali e internazionali attraverso la cosiddetta due diligence, ovvero la procedura attraverso la quale le imprese identificano, prevengono, mitigano e comunicano il modo in cui affrontano e gestiscono gli impatti negativi derivanti dalla loro attività lecita di impresa sui diritti umani».
In che modo si possono aiutare le imprese agricole? Come “fare rete”?
«Così come previsto dal “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022” le priorità d’intervento nell’ambito della filiera produttiva agroalimentare puntano alla creazione e promozione di un tessuto di aziende agricole sostenibili dal punto di vista economico, sociale e ambientale, essenziale per garantire la qualità dei prodotti e assicurare condizioni di lavoro dignitose. Tali priorità si focalizzano sul contrasto alle pratiche sleali di mercato e sul contrasto alla dispersione di valore lungo la filiera; la semplificazione delle procedure amministrative e l’aggregazione dei produttori e la responsabilità solidale delle imprese della filiera. Inoltre, il lavoro di rete tra istituzioni, imprese e terzo settore può contribuire a migliorare alcuni aspetti critici che, se non affrontati in maniera adeguata, creano terreno fertile per la proliferazione di attività illecite connesse all’istaurazione di un rapporto di lavoro: l’intermediazione dell’offerta e domanda di lavoro agricolo, i servizi di trasporto e le soluzioni abitative per i lavoratori agricoli. Ad oggi l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro è caratterizzata da una scarsa presenza di canali regolari in grado di mettere efficacemente in comunicazione i lavoratori con le imprese; da una limitata attrattività dei Centri per l’impiego (CPI); dalla mancanza di un modello di intermediazione comune a tutto il territorio nazionale; e dalla limitata disponibilità di servizi dedicati per i lavoratori e i datori di lavoro del settore agricolo. L’esistenza di un servizio d’intermediazione di manodopera efficace e tempestivo è cruciale per lo sviluppo di strategie volte alla promozione dell’efficienza, equità e trasparenza del mercato del lavoro. Dunque, le priorità d’intervento in questo ambito si focalizzano sul miglioramento dell’efficienza ed efficacia dei servizi dei CPI ai lavoratori e datori di lavoro del settore agricolo attraverso l’attivazione di una piattaforma per l’incontro della domanda e dell’offerta, di servizi per il lavoro agricolo da erogarsi attraverso sportelli fissi e mobili e la collaborazione tra CPI e enti accreditati; l’incremento del numero di CPI che partecipano alle attività delle Sezioni territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità; e il potenziamento del monitoraggio dei servizi d’intermediazione privata. Il trasporto dei lavoratori dai luoghi di residenza a quelli di lavoro avviene principalmente con mezzi non adeguati (molti lavoratori percorrono lunghi tragitti in bicicletta su strade ad alto scorrimento), oppure sono gestiti dai caporali che forniscono un servizio di trasporto il cui costo è spesso detratto direttamente dallo stipendio mensile. Si sta dunque lavorando alla predisposizione di servizi di trasporto pubblico (o tramite partnership pubblico-privata) che tengano in considerazione le necessità dei lavoratori agricoli, dei luoghi in cui dimorano e dei picchi di stagionalità imposti dalla raccolta dei prodotti agricoli. Anche le sistemazioni alloggiative sono gestite e mediate dai caporali, i quali forniscono alloggi in condizioni igienico-sanitarie precarie, spesso sovraffollati e in forte stato di degrado. Gli interventi del Piano Triennale in questo caso si focalizzano sullo sviluppo di soluzioni alloggiative dignitose in linea con i livelli essenziali di prestazioni definite a livello nazionale, e sui modelli già sperimentati a livello locale. Tali modelli prevedono: (i) l’accoglienza in strutture dedicate, anche organizzata dai datori di lavoro (previa valutazione iniziale e monitoraggio); (ii) il recupero del patrimonio immobiliare pubblico, anche attraverso l’utilizzo dei beni confiscati alla criminalità, che si adatta ottimamente a situazioni di co-presenza tra lavoratori stagionali e stanziali; (iii) la riqualificazione dei borghi rurali, adatti ai lavoratori stanziali, che può anche prevedere la partecipazione degli stessi lavoratori alla ristrutturazione e cura dei luoghi».
Parliamo di dati, quante situazioni di disagio lavorativo si contano nel nostro Paese? Questi casi hanno un “filone comune”?
«Secondo il “X Rapporto Annuale: Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia” a cura della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in Italia, su una popolazione di 59.6 milioni di abitanti, la percentuale di cittadini proveniente da Paesi terzi è del 6% con poco più di 3 milioni e mezzo di residenti. Tra questi, il numero di lavoratori è pari a 1.524.548. Fare una stima dei lavoratori che si trovano in condizioni di disagio lavorativo resta più difficile, ed è ragionevole pensare che i pochi dati a disposizione non riflettano le cifre reali del fenomeno, molto spesso rimangono casi sommersi e non denunciati. Un tentativo di quantificare il fenomeno è dato dal V rapporto “Agromafie e Caporalato” pubblicato dall’Osservatorio Placido Rizzotto che fa un’analisi dello sfruttamento lavorativo nel settore agro-alimentare, stimando che sono circa 180.000 i lavoratori particolarmente vulnerabili, e quindi, soggetti a fenomeni di sfruttamento e caporalato. Quantificare in qualche modo lo sfruttamento lavorativo resta dunque difficile, proprio in virtù della natura stessa del fenomeno (sommersa, contesti informali, difficoltà di emersione), ma possiamo invece cercare di comprendere perché alcune categorie sono più esposte a tale rischio. Sebbene l’essere vittima di sfruttamento lavorativo prescinda dalla nazionalità dei soggetti coinvolti, i lavoratori migranti sono più esposti a tale rischio in ragione della loro accentuata vulnerabilità derivante dal combinarsi di diversi fattori. Tra i principali vi è la precarietà della posizione giuridica e sociale dei migranti che contribuisce a rendere il lavoratore ricattabile, in quanto il permesso per lavoro in Italia è tendenzialmente subordinato all’esistenza di un contratto di lavoro; la scarsa informazione in materia di diritto del lavoro, su contratti e buste paga, sul ruolo del sindacato e sulla funzione ispettiva; l’isolamento che caratterizza alcuni settori come quello domestico e agricolo: relegati nelle campagne o all’interno delle mura domestiche, i lavoratori migranti sono fortemente dipendenti dai datori di lavoro e/o dai caporali per qualsiasi esigenza; le responsabilità familiari, le obbligazioni etiche e le esigenze economiche che finiscono per costringere i lavoratori migranti ad accettare salari bassi e condizioni di lavoro indecenti pur di poter dare sostentamento alla famiglia nel Paese di origine e di dimostrare il “successo” dell’esperienza migratoria».
C’è una parte d’Italia in cui il fenomeno è più radicato? Come mai?
«Dai risultati che emergono dal lavoro dell’OIM e dagli altri attori che lavorano in questo campo, si può affermare, purtroppo, che lo sfruttamento lavorativo è un fenomeno che oramai ha preso piede in tutte le regioni italiane ed è presente in tutti i settori economici (dall’agricoltura, alla logistica, al lavoro domestico). Ciò che si riscontra frequentemente sono situazioni di sfruttamento lavorativo anche grave celate dietro un’apparente regolarità giuridica e contrattuale. Gran parte delle vittime di sfruttamento lavorativo assistite nell’ambito dei progetti OIM (più dell’80%) erano infatti persone regolari sul territorio italiano e in possesso di un contratto di lavoro».