Era sul mio comodino da tempo, forse da troppo tempo. Esattamente da quando, uscita estasiata dalla lettura di «Americanah», mi ero ripromessa di voler leggere tutto di Chimamanda Ngozi Adichie. Poi, superando il pregiudizio per cui non avrei mai più letto un suo romanzo così coinvolgente e, soprattutto, ripensando ai tanti consigli di lettura che, l’inverno e la primavera scorsi, sono arrivati da Chiara Piaggio e Nicoletta Brazzelli durante la rassegna «La mia Africa», l’ho iniziato.
L’ho iniziato perché la parola «Biafra», da mesi, mi ronzava in testa, associata purtroppo ed erroneamente alla classica immagine del bambino africano (ma l’Africa è un continente!) con la pancia gonfia, le gambe scheletriche e la mosca al naso. Un’immagine da televisione, un’immagine stereotipata, che ancora oggi ha inquinato il linguaggio. Biafra non significa povertà, non significa carestia, ma significa una terrificante guerra successa tra il 1967 e il 1970 in Nigeria. Al massimo, significa povertà e carestia durante quegli anni, in quella porzione di Nigeria affacciata sull’omonimo Golfo.
«Metà di un sole giallo» (il sole giallo è quello cucito sulle divise dei soldati biafrani), il romanzo che ha per sfondo la guerra civile scoppiata dopo la secessione della Repubblica del Biafra, una guerra da oltre un milione di morti, mi è parso un altro capolavoro. Per i personaggi, i luoghi, le dinamiche familiari e relazionali tra i protagonisti e anche per i temi – i grandi temi della vita – che restano tali anche quando ci si ammazza e si muore di fame: l’amore, la maternità, la famiglia, il lavoro, le tradizioni, il nuovo, le origini, l’identità.
E anche per quel «il mondo taceva mentre noi morivamo», un monito all’indifferenza dell’Occidente davanti ai grandi disastri umanitari nei territori delle ex colonie. Perché lì c’erano neonati che continuavano a succhiare il latte dal seno delle mamme, senza accorgersi che erano già morte. C’erano bunker costruiti alla meno peggio fuori dalle case per trovare una via di fuga ai bombardamenti. E c’era Ugwu, servo di Padrone e colonna della famiglia di Olanna, Odenigbo e Baby, arruolato all’improvviso e costretto – senza forze e annientato dalla sede – a commettere uno stupro.
Ma quel sole giallo, mentre il mondo si gira dall’altra parte e la gente muore, è anche una punta di speranza: perché come recita, nel libro, la poesia dI Okeoma, «se il sole si rifiuta di sorgere, noi lo obbligheremo». Anche a guerra finita, quando si torna a casa, ma quella casa è stata occupata, oppure smantellata, piena di feci, fucili, polvere ed erba alta.