Più di duecentomila anni di storia, settantatré gruppi etnici (censiti) e altrettante lingue. Niente mari, ma un serpentone (Zambesi) di 2600 chilometri, il quarto fiume più lungo dell’Africa, intervallato dalle cascate Vittoria, sito diventato Patrimonio Unesco. Siamo in fondo all’Africa Australe, in Zambia – al secolo Rhodesia Settentrionale, sotto il protettorato britannico -, “un Paese grande due volte e mezzo l’Italia con un terzo della nostra popolazione”. Un lembo di terra gravido di storia, incontri, meticciati, folklore, risorse naturali e possibilità, incastonato tra l’Angola, il Congo, la Tanzania, il Malawi, il Mozambico, la Namibia, la Botswana e lo Zimbabwe. A nord, tra fiumi e cascate, sorge Mansa, la città dove l’Associazione Papa Giovanni XXIII ha fondato una casa-famiglia per bambini fragili e orfani.
È qui che Maura Volpe e Lorenzo Bedeschini Bucci hanno appena concluso i dodici mesi di Servizio Civile Universale. Un anno intero di volontariato per prendersi cura di bambini e bambine in difficoltà.
Una scelta, però, nata quasi per caso: “In sincerità, – ammette il giovane volontario- nessuno dei due l’aveva pianificata come meta: ne avevamo battezzate altre come proseguo dei nostri percorsi professionali e accademici. Io, per esempio, volevo andare in Cile con una comunità indigena che vive ai margini della legge. Quando, però, ci si è presentata quest’occasione in Africa, abbiamo accettato per conoscere un’altra cultura in un luogo lontano e sconosciuto, con spirito d’avventura e un atteggiamento proattivo verso l’inclusione”.
E Maura gli fa eco: “Sicuramente volevo essere utile nel vero senso della parola. Perciò, conoscendo già la lingua, volevo andare in Russia per aiutare persone che avevano finito il percorso terapeutico e avevano bisogno di assistenza per diventare indipendenti nel lavoro. Scoppiata, però, la guerra in Ucraina, ho accettato, non senza timore, la proposta in Zambia di lavorare in un orfanotrofio con dei bambini, intrattenendoli con attività ludiche, ricreative e anche educative. Insomma, siamo andanti all’avventura”.
Pentiti o soddisfatti della scelta?
Lorenzo: “Non sono pentito, ma neanche soddisfatto del tutto. Un anno può sembrare lungo, ma in realtà è poco tempo. Sono contento, però, nel senso etimologico della parola: riesco ad apprezzare ciò che è stato. Però, la questione rimane aperta: le relazioni si sono stabilite, i contatti ci sono e potranno essere sviluppati in futuro. Siamo lontani, ci sentiamo poco, non so quando e se torneremo lì, ma le nostre vite sono legate e lo saranno sempre”.
Maura: “Sono abbastanza soddisfatta, certo non tutti i progetti sono stati portati a termine e non tutti nel migliore dei modi, ma c’era da aspettarselo: entri nella vita delle persone e sai che te ne vai prima o poi. Noi sapevamo di agire nel qui e ora, ma la vita per queste bambine e bambini è diversa con o senza volontari. Sarebbe bello, per questo, farli venire qui anche per un periodo limitato: per far fare a Nandipa, che ha otto anni, tutto quello che non potrebbe fare lì”.
Cosa potrebbe fare in Italia che in Zambia non fa?
Maura: “Per esempio giocare al parco in libertà. A Mansa non ci sono parchi. O farle fare dei corsi di danza o di teatro: a lei piace molto ballare. Mi piacerebbe darle la possibilità di venire a Pescara per un periodo di tempo piuttosto che lasciarla ad una quotidianità in cui ha difficoltà a spiccare, sia per la cultura locale, sia per abitudini che non si sposano con le nostre”.
Raccontateci una vostra giornata-tipo di volontariato...
Maura: “Ci svegliavamo presto – tra le 6:30 e le 7:30 – perché la giornata termina al tramonto, e la sera non si usciva. Al mattino aiutavamo le ragazze a prepararsi per andare a scuola o a lavoro, come Monica, che vive sulla sedia a rotelle e, con una mano sola, lavora in un laboratorio di ostie e rosari. Poi lavoravamo al progetto di adozioni a distanza facendo interviste e scrivendo report per gli uffici in Italia. Al pomeriggio andavamo o in biblioteca provinciale per dare ripetizioni ai bambini della primaria, o nell’oratorio dei salesiani per intrattenere quelli del quartiere. In tutto ciò, portavamo sempre Monica alle prove del coro due volte a settimana. La sera, a turni, cucinavamo e lavavamo i piatti; prima e dopo cena facevamo i compiti di scuola con le ragazze; il sabato le portavamo a passeggiare per il fiume o a prendere un gelato; la domenica mattina le accompagnavamo e le andavamo a riprendere in chiesa”.
Lorenzo: “In più, un sabato al mese organizzavamo con il vescovo una giornata per offrire il pranzo ai
ragazzi di strada. Poi, due volte a settimana, lavoravamo in una scuola d’infanzia con bambini di cinque anni. La scuola materna non è obbligatoria, è un’eccezione privata gestita dalla Chiesa, ed è raro incontrare bambini capaci di parlare in inglese. È stato parecchio stimolante fare gli insegnanti di sostegno, perché tante persone vengono lasciate indietro e i programmi spesso sono più impegnativi di quelli che ricordo in Italia”.
Che emozioni provavate nel lavorare con i bambini?
Maura: “Mi sentivo appagata, utile nel far capire loro ciò che la maestra non aveva tempo e voglia di far capire. Allo stesso tempo, però, ero frustrata perché non decidevo io e mi dovevo adeguare. Per cui riuscivo nell’obbiettivo, ma rimanevano disuguaglianze tra i bambini che agli occhi della maestra non erano un problema”.
Lorenzo: “Io ero anche preoccupato, avevo un po’ d’ansia da prestazione. In una classe da trenta bambini scatenati con la maestra che ti lascia da solo, devi inventarti qualcosa. La mia ansia magari non si vedeva, ma, quando cercavo di spiegare le cose, diventavo tranquillo. Quando segui un bambino da solo è più semplice comunicarci, entrarci in contatto. Invece, nella lezione frontale con la classe ci vuole indole e capacità tecnica di intrattenerli. Devi fare quasi più uno spettacolo che una lezione: il lavoro dell’insegnante è sempre stressante e duro, ma i bambini comunque pendono dalle tue labbra, come in qualsiasi scuola dell’infanzia”.
Usciamo dalla scuola e buttiamoci in strada. Zambia: che Paese avete trovato?
Maura: “Un Paese in cui la vita e il tempo scorrono in modo meno frenetico. Le persone non sono
comunicative, ma allo stesso tempo sfoggiano sorrisi che mettono in imbarazzo chi è ospite, ti fanno sentire quasi a disagio. Hanno difficoltà a concepire gli orari, gli spazi, le distanze. Esiste la mattina, il pomeriggio, la sera, tutto va molto a rilento, tutto è molto più tranquillo. Chi lavora sa che la sua vita è scandita da vari impegni, ma ci sono tante persone che non abbiamo ben capito come vivono. Qui in Italia tutti fanno qualcosa, lì si spostano e non sappiamo dove: vanno o a casa o in città a vendere e comprare”.
Lorenzo: “C’è uno scandire del tempo preindustriale, accomunabile a quello esistito in Italia fino agli anni Sessanta. La mattina ci si sveglia prestissimo, ma si pensa soprattutto alla casa e alla vita domestica. Poi c’è la fase lavorativa che spesso include il pranzo: chi si sposta, o non mangia o pranza in giro, insieme, in maniera molto frugale. Vivono molto in casa, seguono ritmi naturali, molti si spostano a piedi o in bicicletta, spesso si lavora nei campi, lontani da casa: la giornata trascorre per raggiungere il campo o le scuole, spesso lontane dalle abitazioni. Poi c’è la parte di svago: chi se lo può permettere, beve in qualche bettola o gioca a biliardo. Però c’è musica ovunque, è difficile trovare un luogo di silenzio, anche nelle campagne, nelle zone dove non c’è elettricità. Hanno un legame con il suono sempre presente”.
Quindi un Paese senza il concetto occidentale di comunità o società?
Lorenzo: “Esiste un concetto di famiglia molto forte, in aggiunta a quello di tribù, che si sta perdendo,
soprattutto in città. In altre regioni provavamo a salutare nella lingua della nostra zona, e quando
incontravamo uno che la parlava, rispondeva con orgoglio. Nelle zone rurali, le tribù sono autentiche
istituzioni, ci sono confini tracciati anche per acquisire un pezzo di terra. Inoltre, danno grande importanza a riti di passaggio, ma in città contano sempre le famiglie: quindi matrimoni e funerali sono occasioni di grandi festa. Però si conosce il vicinato o il quartiere solo nei villaggi o in zone suburbane. Tra casette di mattoni o lamiere c’è un ricambio frequente di persone, e i vicini non sanno bene dove gli altri vadano. Ci si sposta soprattutto seguendo la famiglia”.
Maura: “Altra comunità fondamentale è la Chiesa. Si creano tanti cori e le persone entrano in relazione, creando un nucleo o un gruppo anche non sanguigno. In generale, sono molto ospitali e cordiali, ma per loro l’intimità è inconcepibile, non raccontano mai fatti personali. Noi verbalizziamo emozioni e idee estremamente profonde, riflettiamo sul senso della vita, lì si vive alla giornata senza pensare a ciò che non hai, senza consapevolezza dei gusti, delle preferenze individuali. La lingua bemba è più povera perché utilizzata per lo più oralmente. Ha un lessico più limitato, per esempio ‘ieri’ e ‘domani’ si dicono allo stesso modo usando la parola “mailo”, ed espressioni quotidiane per relazionarsi con amici e parenti si usano anche in contesti piuttosto formali, come ad esempio il momento delle congratulazioni alla fine di un workshop. Diciamo che, se da un lato si cerca di valorizzare il bemba nelle scuole, dall’altro scrittori, poeti e filosofi sono generalmente poco influenti e non costituiscono dei modelli di riferimento per le persone”.
Come sarà questo Paese tra trent’anni?
Maura: “Arriverà ad essere sviluppato: qualcuno aprirà un cinema, le persone inizieranno a leggere perché oggi è raro incontrare qualcuno con un libro in mano, e la l’inglese si consoliderà. Ora ascoltano tanta musica, sentono la radio e guardano la televisione. Sono le uniche fonti d’informazione. I pochi che hanno uno smartphone potrebbero essere collegati al mondo, all’attualità, ma spesso lo usano per intrattenersi sui social network”.
Lorenzo: “Sarà una terra piena di possibilità nonostante un tenore di vita molto più basso del nostro. Si avviano verso uno stile di vita occidentale, ma è un’arma a doppio taglio: sviluppo non sempre significa progresso, è fondamentale considerare sempre l’impatto ambientale; l’industrializzazione ti si può ritorcere contro; le comodità ti possono indebolire. Da studente di scienze politiche e relazioni internazionali ho scoperto che lo Zambia è peculiare nell’Africa Australe. È circondato da Paesi di aspri conflitti e dalle storie travagliate, ma rimane un Paese povero, pacifico, tranquillo, stabile. Per paradosso, però, è ricco di risorse, specialmente idriche. Gran parte del territorio è spopolato o selvatico, adoperato per agricoltura o per estrazione mineraria che si potrebbero efficientare molto. In più è indebitatissimo, ma nessuno vuole farlo fallire; quindi, verrà sempre aiutato. Al momento è oggetto di mire cinesi, europee, statunitensi, indiane e sudafricane. La situazione, allora, va monitorata per capire come si concilieranno questi interessi, e se si
svilupperà un sistema politico interno capace di non svendersi e tutelare la popolazione”.
Un valore che rubereste a questa terra e portereste in Italia…
Lorenzo: “Lo spirito di sacrificio: l’adattabilità è ancora a livelli alti viste le sfide del contesto naturale. Poi, la conoscenza della natura: per noi è difficile conoscere molte cose dell’ambiente naturale, lì, invece, è molto comune. Ma ci sono anche esempi contrari: per tradizione coltivano piante come il mais che, però, a causa dei cambiamenti climatici diventano via via meno efficienti. Poi ruberei loro il senso della celebrazione: qui non facciamo granché esperienza del dolore, invece per loro è molto profonda benché idiosincratica perché tendono a non comunicare. Il funerale, per esempio, è molto partecipato. Da noi è legato alla Chiesa, si è tristi insieme, ma in un contesto protetto e limitato, lì, al contrario, si svolge in casa e può durare giorni: gli africani fanno chilometri e chilometri per stare e mangiare insieme: c’è un vissuto del dolore molto più collettivo”.
Maura: “Io, sinceramente, ruberei una sola grande cosa: la capacità di non lamentarsi delle cose futili”.
Se chiudi gli occhi e pensi al vostro anno lì: qual è la prima immagine che vedi?
Lorenzo: “Gli spazi sconfinati, gli orizzonti, il cielo immenso, le strade a perdita d’occhio, un ambiente in cui le costruzioni umane sono ancora infinitesime. Poi mi vengono in mente i volti di Nandipa, Jacinta e Mapalo: alcune bambine della nostra casa-famiglia”.
Maura: “Gli orizzonti, i paesaggi, questo senso di vastità, come ci fosse il mare intorno a te ovunque tu
vada. E poi individui che si aggirano per la strada. Tu li scruti, li guardi e ti chiedi dove vadano, che ne
faranno delle cose che trasportano in testa o in bicicletta. Vestono abiti in tessuti e design tradizionali, per noi stravaganti e bizzarri. Ci tengono molto alla cerimoniosità tant’è che la maggior parte di loro ha vestiti e scarpe da utilizzare solo per andare in chiesa. Vedo, poi, molti colori, molte parrucche, molte acconciature peculiari che in Italia non vedi perché i loro capelli sono diversi. Le donne sono capaci di perdere un giorno a plattarsi (farsi le treccine, n.d.r.) i capelli, ma senza essere vanitose. E poi vedo uomini che bevono e giocano a biliardo, i bambini che si divertono con la fantasia. E tutti che vanno in chiesa”.