Marocco, quando vorresti non fare il turista ma non ti mimetizzi mai

Un uomo in una bottega di libri e riviste nella medina di Rabat

Torno dal Marocco con un velo di malinconia, come sempre quando i viaggi sono importanti. Ho le narici pieni dell’acqua di fiori d’arancio, un profumo di cui ho seguito la scia un po’ ovunque. Di notte non sento più il canto dei muezzin dai minareti, ché tanto c’era sempre una moschea vicina ed era impossibile non svegliarsi.

Mi avevano suggerito di non andare in Marocco durante il Ramadan, invece il parrucchiere di mio figlio, Ayoub, aveva contraddetto tutti:  «Non vedrai Marocco più autentico come durante il Ramadan».

Perché a Marrakesh, mentre stava per scoccare l’ora della rottura del digiuno e noi ci eravamo persi per la medina alla ricerca del nostro riad, in un minuto hanno smesso di sfrecciare biciclette e motorini, sono spariti dai vicoli gli asini ed è calato un silenzio surreale. Ci sono dieci minuti di limbo, in cui la città si svuota, dalle botteghe escono tajine, pane, tè e cous cous e tu, estraneo e profano, ti godi quello spettacolo.

Marocco è il sorriso più grande del mondo, quello di un bambino seduto per terra su un marciapiede a Safi, dove i turisti non ci sono e Ramadan vuol dire davvero tutti i bar chiusi fino al tramonto, un bambino che per 20 dirham (due euro) ti spezza il cuore e tu, che vorresti viaggiare senza lenti coloniali, senti in quel momento tutta la pesantezza del colonialismo. Tu sei il bianco, europeo, che si lava la coscienza con una monetina e poi dimentica tutto.

Marocco è una palla sgonfia e impolverata su una strada di Fes, che dà il via in tre secondi a una partita di calcio, senza che le parole servano, tanto non sarebbero comprese. 

Marocco è anche povertà, quanta povertà. Degrado, anche degrado. Sporcizia, tanta sporcizia. 
Ma poi colori, colori, colori ovunque. Minareti che ti spuntano da ogni lato, verdi, gialli e blu. Tappeti, saponi, spezie. Gli hijab delle donne, le pelli “conciate”, le arance, mamma mia quante arance.


Marocco è lo zucchero a velo sulla pastilla, le prugne nel tajine, la zucca nel cous cous, il sesamo sui chebakia. E vorresti farti piccolo, quasi scomparire, osservare e assorbire, guardare e capire, memorizzare a portare a casa. Invece sei vestito in un altro modo, hai la macchina fotografica al collo, una Routard in mano e non ti mimetizzi mai, mai anche se lo vuoi. Speri solo non ti scompaia dagli occhi una certa meraviglia, mista a nostalgia, a dolore, a rassegnazione. Di come in un Paese così bello certi neonati passino le giornate a ridosso dei semafori. Di come si viva alla giornata, perché poi cosa sarà mai domani. 

Riguardo le foto, il diario di viaggio di mio figlio e la risata che mi hanno suscitato le sue parole, mentre viaggiavamo verso Essaoiura:

«La cosa più bella del mondo è la mamma»

«La mamma?»

«Non hai capito, ho detto l’hammam»