«La digitalizzazione può mascherare pregiudizi e ostacoli ai diritti ma se ben gestita, è una grande opportunità»

La burocrazia lede i diritti delle persone straniere? In che modo? E la digitalizzazione può aiutare o ostacolare la semplificazione amministrativa, anche per chi non è italiano? A queste domande proverà a rispondere domani, giovedì 26 maggio dalle 9 alle 12,30 alla Biblioteca Classense di Ravenna, anche Mario Savino, Coordinatore dell’Accademia di diritto e migrazioni, nonché ordinario di diritto amministrativo all’Università della Tuscia. Il professor Savino sarà uno dei relatori del seminario «Trasformazione digitale per una società inclusiva: i nodi della semplificazione amministrativa».
Professor Savino, tutti i cittadini stranieri lamentano percorsi amministrativi tortuosi e costosissimi quando devono esercitare diritti fondamentali riconosciuti: procedure complesse, difficoltà di comunicazione tra pubbliche amministrazioni, ritardi che si sommano dei procedimenti. Richieste “improprie” di documentazioni, discrezionalità eccessiva e spesso orale determinano gravi corti circuiti burocratici e un forte impatto sulla qualità della vita di tanti cittadini. Si può fare di meglio? 
«Certo, basterebbe guardare alle altre esperienze europee per capire che si può e si deve fare meglioPer realizzare una gestione efficiente, da Paese avanzato qual è l’Italia, servono tre cose: il superamento della logica della specialità dell’immigrazione, maggiori risorse amministrative, digitalizzazione».

Mario Savino

Analizziamole una per una…
«Per comprendere la logica della “specialità” delle norme sull’immigrazione, basta considerare la legge sul procedimento amministrativo (legge 241/1990), che sottrae tutti i procedimenti in materia di asilo, immigrazione e cittadinanza all’applicazione della SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) e del silenzio assenso, che sono i principali strumenti di semplificazione amministrativa. La stessa legge detta una disciplina del termine di conclusione dei procedimenti amministrativi, che colloca l’amministrazione dell’immigrazione “fuori dal tempo”. In base all’articolo 2, tutti i procedimenti devono concludersi entro 30 giorni, prorogabili a 90 ed eccezionalmente a 180, ma vengono esclusi da questa disciplina tutti i procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione. E così abbiamo permessi di soggiorno il cui rilascio è previsto entro 20 giorni ma in realtà avviene in 6-8 mesi o addirittura in prossimità della scadenza annuale. E abbiamo procedure in materia di acquisto della cittadinanza (cosiddetta naturalizzazione) per le quali il termine di legge è di ben 24 mesi, è prorogabile fino a un massimo di 36 e non di rado viene persino superato nella prassi. Viene da chiedersi: perché la naturalizzazione in Italia richiede tre anni mentre in Germania appena tre mesi?».
Per quanto riguarda le maggiori risorse amministrative, qual è il problema principale?
«Esiste un crescente divario tra la sempre più imponente mole di funzioni amministrative, alimentata dall’approccio “difensivo” dell’Unione europea, che si scarica in particolare su questure e prefetture, e le risorse destinate a servizi – dall’accoglienza dei richiedenti asilo al rilascio dei permessi di soggiorno, fino alla naturalizzazione – che sono sottofinanziati».
Qual è la ragione del sottofinanziamento?
«La ragione sta nell’aumento dei carichi di lavoro degli uffici che erogano servizi ai migranti, cui non corrisponde un parallelo incremento delle risorse amministrative. Nella narrazione imposta da alcune forze politiche, è necessario devolvere le risorse ai servizi che hanno come destinatari diretti i cittadini italiani. Prevale il timore di mettere in discussione equilibri amministrativi consolidati, anche se quegli equilibri non tengono conto degli effettivi carichi di lavoro degli uffici che curano gli “affari” degli stranieri, né del grado di soddisfazione del non-cittadino/utente. Evidentemente, si sottovalutano le conseguenze di quelle scelte distributive e delle inefficienze amministrative che ne derivano. Ne risentono non solo le prospettive di vita individuali degli immigrati, ma anche, sul piano aggregato, la nostra coesione sociale, dato che la cattiva gestione amministrativa produce irregolarità e l’irregolarità, a sua volta, alimenta la criminalità, il senso di insicurezza, nonché la sfiducia dei cittadini e dei nostri partner europei».
Ma veniamo alla digitalizzazione, tema della giornata di giovedì a RavennaIncludere nel processo di interoperabilità in atto anche gli archivi e le basi di dati di interesse nazionale che riguardano i cittadini stranieri, come previsto dal legislatore, può migliorare l’accesso ai servizi e ai diritti riconosciuti?
«Certamente, ma la creazione di strumenti di identità digitale non basta. Ben venga la “piattaforma abilitante” dell’anagrafe della popolazione residente, che però era prevista nell’Agenda digitale italiana del 2017 e viene realizzata solo cinque anni dopo. Nel 2022 occorre fare di più. Serve un approccio alla digitalizzazione più ampio e aggiornato, che doti l’amministrazione non solo di strumenti di identità digitale (primo passo) ma anche di strumenti di analisi dei big data e di intelligenza artificiale. Serve digitalizzare non solo le informazioni, ma anche le procedure. Quando il rilascio di un provvedimento è vincolato al mero accertamento dei presupposti di legge, la procedura può essere totalmente digitalizzata. Ma anche quando vi sono valutazioni più complesse, la digitalizzazione resta un’opzione. Si pensi al rilascio del permesso di soggiorno, che dipende anche dalla verifica che il richiedente non rappresenti un rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza (ad esempio non abbia precedenti penali). Per questo accertamento negativo è possibile utilizzare algoritmi che verifichino l’esistenza di “riscontri positivi” nelle banche dati, come previsto dal sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi (ETIAS) entrato in vigore nel 2022. Qualora non emergano elementi di rischio, l’autorizzazione al viaggio è rilasciata entro quattro giorni».
La digitalizzazione ha due corollari: l’accompagnamento della cittadinanza all’utilizzo degli strumenti digitali e la spersonalizzazione del rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione. Quali rischi e opportunità lei vede in questi due processi?

«Vedo, innanzitutto, rischi di emarginazione. Il digital divide impone di garantire servizi ad hoc per gli anziani e in generale per chi non abbia le competenze e la dotazione informatica necessarie. Serve, secondo gli ambiti, un mix di sportelli amministrativi aperti al pubblico, servizi di assistenza telefonica e/o il rafforzamento delle reti di intermediari privati, sul modello dei patronati. Ma vi è un rischio ancor più serio: che la digitalizzazione incorpori, mascherandoli dietro l’opacità della tecnologia, pregiudizi e ostacoli al godimento effettivo dei diritti. In materia di immigrazione, esiste già uno squilibrio che riguarda il processo decisionale: la sottorappresentazione dei migranti, che non votano, spinge il legislatore (in misura diversa secondo l’intensità delle pulsioni maggioritarie che attraversano la compagine di governo) verso la compressione dei loro diritti, specie se percepiti come antagonisti rispetto ai diritti dei cittadini/insider. Servono, perciò, regole specifiche che garantiscano la salvaguardia dei diritti fondamentali quando il loro esercizio dipenda dalla tecnologia. Primo passo importante, la proposta di regolamento della Commissione europea per la definizione di regole armonizzate sull’intelligenza artificiale, presentata il 21 aprile 2021. Nella proposta, i sistemi di intelligenza artificiale per le migrazioni e l’asilo sono classificati “ad alto rischio”, con conseguente necessità di predisporre specifiche garanzie. L’approvazione della proposta europea sarebbe un primo passo, ma gli Stati membri dovranno comunque fare la loro parte, dotandosi di nuove regole per le procedure di domani, che saranno interamente digitalizzate, laddove vi siano rischi minori, oppure digitalizzate solo in parte, combinando fasi automatizzate con fasi gestite dal “fattore umano”».
Ci dà un suo giudizio sulla decisione da dicembre 2021 di sottoporre ad un costo di circa 100 €, a differenza di altri permessi della stessa famiglia, il permesso di soggiorno per protezione speciale che viene rilasciato in situazioni strettamente connesse a motivi umanitari?
«Rispondo con una domanda: perché il permesso per la protezione temporanea rilasciato agli ucraini è in formato elettronico ed è rilasciato gratuitamente? Il sistema tariffario legato ai permessi di soggiorno risponde talora a una strategia amministrativa implicita, al tentativo, cioè, di orientare la domanda amministrativa verso alcuni canali. La protezione speciale è una sorta di “ultima spiaggia” per il migrante vulnerabile che non ha i requisiti per ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria ma ha avviato un percorso di integrazione sociale e si suppone abbia le risorse per pagare.  Il problema vero è che la tariffa per il servizio non è correlata né ai costi effettivi sostenuti dall’amministrazione per la prestazione resa, né alla qualità del servizio offerto».