Margherita Ferri: «Il mio Capitan Didier e il potere salvifico dell’immaginazione»

Il trailer di Capitan Didier

La madre del piccolo Didier muore in un naufragio nel Mediterraneo, così il bimbo costruisce una nave unendo cartoni di pizze grazie al padre fattorino (Miguel Gobbo Diaz) per riprenderla. Capitan Didier è il cortometraggio che ha trionfato al concorso Una storia per Emergency per Alice nella città, sezione della Festa del Cinema di Roma per storie di giovani autori sui diritti, la pace e la solidarietà. Prodotto da Matteo Rovere, di Groenlandia con Rai Cinema per Emergency, e realizzato da Lynn, la storia è diretta da Margherita Ferri, originaria di Imola, una delle registe più promettenti del nostro panorama cinematografico. Il corto ha ottenuto la menzione speciale ai Nastri d’Argento e il premio SAMIFO al festival Lo Spiraglio.

Cara Margherita, per la sceneggiatrice Roberta Palmieri alla base della storia c’era la necessità di raccontare  un mondo solo apparentemente lontano dalla sua quotidianità, come i migranti e le loro traversate. Tu, invece, cosa avevi bisogno di raccontare?

«Partiamo dal fatto che sono entrata in una storia era già stata scritta e già premiata, contattata da Groenlandia di Matteo Rovere, prima del prima del primo lockdown. Chiaramente poi non se n’è fatto più niente per diverso tempo. Io, però, avevo trovato una storia senza nessun cliché nell’ambientazione e nel tipo di immigrazione che racconta. E questo mi ha convinto subito. Soprattutto provavo a immaginare, riportando una situazione per fortuna molto lontana dalla nostra esperienza di vita, una storia che parlasse della famiglia, delle relazioni padre-figlio con questo fantasma della perdita della madre. Per di più, il merito di Roberta è aver immaginato cosa succede dopo il viaggio, dopo l’emergenza. Ho voluto girarla, allora, perché, anche se ultimamente si parla meno di tratte di migranti nel Mediterraneo, siamo sempre stati partecipi delle immagini e dei racconti quando queste persone sono in mare, nel pieno dell’emergenza. Ma il prima, prima di arrivare in Libia e il dopo, quando sono in Italia, mi sembrano poco raccontate. Per di più mi è piaciuto il tono da favola della storia, lontano dai tipici film solo realistici che si fanno in Italia».

Com’è stato, allora, il lavoro sceneggiatrice-regista?

«Prima tutto il tema della madre scomparsa non c’era, però Roberta lo aveva pensato per un’altra versione. Così le ho proposto di renderlo subito il vero fuoco emotivo del racconto. Come desiderio di un vero viaggio possibile per tornare verso qualcosa che non c’è più ma rimane dentro».

Questo film, per di più, ha varie somiglianze con Zero (2021), la serie Netflix di cui sei stata regista di due puntate: la difficoltà di integrazione in un altro contesto, la vita da emarginati, la periferia. Soprattutto, entrambi i protagonisti, Omar e Didier, scontano il trauma della perdita della madre. Ma anche la voglia di reagire agendo, costruendo concretamente qualcosa per ribellarsi a una mancanza così atroce. È così?

«Sono due storie diverse: Zero nasce dall’esigenza di raccontare i ragazzi italiani di seconda generazione. Lì, la vera azione e la riflessione sull’invisibilità diventa metafora del fatto che sono cittadini non riconosciuti, invisibili. In Captain Didier si parla di migranti di prima generazione che devono costruirsi una vita in un paese che non conoscono. La marginalità, però, è sicuramente un denominatore comune: nel cortometraggio padre e figlio vivono in campagna, in un posto abbandonato, occupato, fuori dalle logiche sociali e lavorative. In Zero, invece, i ragazzi abitano in un quartiere inventato da noi, comunque ispirato alla Barona, che non a caso è fuori dal centro di Milano».

Un altro, potrebbe essere la spinta a ricostruire una realtà insoddisfacente attraverso l’immaginazione, costruendo di una barca fatta di cartoni di pizze come fa Didier, o disegnando un supereroe a fumetti per Omar...

«Assolutamente sì. A me piace dire che il cortometraggio celebra il potere salvifico dell’immaginazione. Il fatto che Didier creda veramente di recuperare la madre con una barca rende possibile una realtà totalmente innaturale e lontana dai legami familiari che sta vivendo. Su Zero, diversamente, si sviluppa attraverso il fumetto, anche se lì è motivo anche di alienazione perché all’inizio Omar, non conosce nessun ragazzo del quartiere: è sempre stato chiuso nel suo mondo. Poi si apre alla relazione».

Tra le tante accezioni psicanalitiche che può avere l’acqua, che ritorna nel cortometraggio sotto forma di pioggia ma anche come ricordo del mare, c’è quella della madre, del grembo materno, evocato, anche tramite un tenero canto femminile di origini eritree. La volontà, quindi, era non di rappresentare, ma evocare la madre con tutti gli strumenti che il cinema dà?

«Sì, in sceneggiatura c’era il tema del temporale che rievoca il naufragio che padre e figlio hanno vissuto, trauma che lega tantissime storie di arrivo nel Mediterraneo. Quando abbiamo inserito la madre è venuto fuori il tema della canzone, la cui idea era già in sceneggiatura, ma con la compositrice abbiamo fatto una lunga ricerca per scegliere quale inserire, per trovare caduta su un brano tradizionale che potesse essere plausibile anche per i nostri attori. Così abbiamo scelto un brano per evocare la madre attraverso una tenera ninnananna. È stata una scelta azzeccata, perché lo spettatore non vede la donna, non conosce la sua storia ma è ricordata continuamente, per cui doveva avere una grande qualità emotiva pur nella sua assenza».

Sia in Zero che in Captain Didier mi pare emerga, in filigrana, una sostanziale diffidenza da parte di chi, come noi, dovrebbe accogliere chi arriva. La società italiana, secondo te, non è ancora in grado di accogliere senza pregiudizi o stiamo facendo passi in avanti?

«Sicuramente è un riflesso di quello che viviamo: Zero in primis nasce dall’esperienza di Antonio Dikele Di Stefano, – autore del libro Non ho mai avuto la mia età cui si ispira la serie (n.d.r.) – che vive sulla sua pelle quotidianamente il razzismo, anche in cose microscopiche. Me ne sono accorta stando con lui durante la preparazione della serie in episodi minimi che da italiana non avevo mai considerato».

Tipo?

«Un giorno eravamo al bar con tutta la troupe, chiedendo caffè, acqua, caramelle. Il direttore di produzione va alla cassa per pagare per tutti. Ma la barista, ad Antonio che voleva delle caramelle, risponde: “Sì, però, vieni in cassa a pagare!” perché era convinta che non fosse con noi, nonostante fosse in mezzo a noi. Questo episodio mi ha fatto capire che non vieni mai percepito per come sei, ma sempre con un altro livello di lettura. Per cui è ovvio che se uno prova a raccontare un diverso, la diversità è il centro del racconto. Così, in Captain Didier, alla titolare della pizzeria, Franca, essendo un personaggio molto ironico ho voluto mettere in bocca tutte le battute in voga durante il governo Lega-Cinque Stelle: “è finita la pacchia!”, “Ma dove sparisci sempre tu!”. Perché sono le cose che noi abbiamo sentito sempre negli ultimi anni, anche se totalmente inventate».

Per chiudere, dal tuo lungometraggio Zen sul ghiaccio sottile, passando Zero e arrivando a Captain Didier, la tua cinepresa è innamorata delle giovani generazioni. Da dove viene questa scelta e che possibilità espressive e creative ti riserva l’incontro con i giovani?

Margherita Ferri

«La riflessione sull’adolescenza è sempre stata un focus nel mio lavoro. Penso sia personale e attitudinale. Già ai tempi del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, i miei colleghi della classe di regia mostravano già un interesse preciso per alcuni temi o per alcuni generi. Non so bene perché, ma mi è sempre interessato questo, faccio laboratori con i ragazzi, mi piace stare con loro per esplorare quella fase della vita in cui tutto può cambiare perché stai trasformando la tua identità. Per cui le storie che riesco a realizzare raccontano sempre, in qualche modo, ricerche della propria identità. Su questi temi mi sento di poter dire qualcosa. Anche il film The nest (Il nido), che ho scritto insieme a Roberto De Feo e Lucio Paesana è una storia di due ragazzini, nonostante sia un horror. Roberto, infatti, che mi contattò nel 2014 perché avevo una menzione al Premio Solinas con il primo soggetto di Zero, voleva il mio sguardo su questa storia di due ragazzini. Mi piace molto raccontare storie di personaggi in cui l’identità è in formazione e in creazione, in cui c’è una spinta alla vita e non ancora la paura della morte. I ragazzi sono invincibili perché non hanno ancora il senso della fine. Per cui mi piace, mi piace molto l’adolescenza, ma magari un giorno, però, scriverò anche di vecchi!».