Sarà Mahougnon Venance Sinsin, sabato 18 febbraio alle 10 alla Biblioteca Classense, il protagonista del terzo incontro della rassegna «La mia Africa» organizzato dal Comune di Ravenna per diffondere un immaginario meno stereotipato del Continente. Sinsin è nato a Ajacɛ́ (Porto-Novo), in Benin, nel 1976 e ha compiuto gli studi di Linguistica e di Filosofia all’Université d’Abomey-Calavi e all’Università Pontificia Salesiana. Si interessa in modo particolare alla filosofia analitica e alla storiografia della filosofia africana.
Insegnare storia dell’Africa. Che cosa ne pensa, del modo in cui l’Africa è presente nei programmi di storia della scuola italiana?
«La strutturazione dei programmi scolastici dipende dalla politica educativa di ogni nazione. Ora tale politica si fonda su una determinata visione del patrimonio culturale nazionale e mondiale. Non mi permetterei di emettere un giudizio di valore sul modo in cui l’Africa è presente nei manuali di storia della scuola italiana. Oggettivamente è poco presente rispetto alla presenza dell’Europa nei programmi di storia di vari paesi dell’Africa. Ne risulta che gli allievi africani della scuola media e della scuola superiore, nella loro grande maggioranza, conoscono la storia dell’Europa meglio di quanto i ragazzi italiani ed europei conoscano quella dell’Africa. L’ideale sarebbe che la scuola, quella di qualunque nazione del mondo, educhi davvero all’Universale. Un universale poliedrico. Questo rimane per ora un sogno utopico, ma penso sia un bel sogno al quale gli umanisti del nostro tempo non devono rinunciare, anche se non sempre hanno l’opportunità di incidere sulle politiche educative nazionali o istituzionali».
Il suo sarà il terzo incontro della rassegna “La mia Africa”, che ha lo scopo di decostruire gli stereotipi sul Continente e costruire, invece, una nuova narrazione. Quali sono le principali cause che “annebbiano” il nostro sguardo sull’Africa?
«Potrei azzardarmi a rilevare alcune cause storiche e culturali che tutti ormai conosciamo; ma non penso spetti a me farlo. Come insegna la parabola, ognuno può imparare a togliere la trave o la pagliuzza che è nel proprio occhio e che gli impedisce di vedere chiaro. Una cosa è comunque certa: la complessità del mondo attuale e la necessità di costruire un futuro più umano rendono necessaria una “inversione dello sguardo”. Questo vale per tutti gli uomini del nostro tempo, ma vale ancora di più per quelli che un determinato clima culturale, sociale e mediatico ha abituato sin dall’infanzia a guardare “l’altro” in modo distorto. Nessuno nasce con degli stereotipi. Gli stereotipi sono un costrutto. Solo attraverso un lavoro di decostruzione possono essere progressivamente smontati. Essendo questa decostruzione un’impresa culturale, il ruolo della scuola mi sembra ancora una volta determinante. A scuola si può imparare a guardare, a contemplare il mondo nella diversità dei suoi colori o delle sue tradizioni culturali e soprattutto ad acquisire una mente aperta».
«Una memoria comune per un umanesimo trasversale». Partendo dal sottotitolo dell’incontro di Ravenna, qual è il suo auspicio, ma soprattutto qual è la direzione da prendere, per guardare l’Africa da un altro punto di vista, capirne la complessità e farci portatori di nuovi orizzonti di senso?
«L’unica via che io conosca per invertire lo sguardo e costruire un “umanesimo trasversale” è quella della cultura. Come dice lo studioso e filosofo senegalese Cheikh Anta Diop, la “pienezza culturale” è l’arma più potente per implementare una visione del mondo che sappia valorizzare la diversità come una ricchezza. La storia dell’Africa può essere letta come una “memoria comune” che ci aiuti a rilanciare continuamente e decisamente il progetto dei più antichi antenati dell’umanità: acquisire la statura piena dell’Uomo. Un’espressione di Frantz Fanon traduce perfettamente questa idea: la “montée en humanité”. Gli egizi del periodo faraonico esprimono la stessa idea con il concetto di “Khepert Ankhu”, ossia il processo di perfezionamento perpetuo dell’Essere Umano. Questa è una delle versioni africane dell’umanesimo. Dico che la storia dell’Africa è una memoria comune perché l’Africa è la “Patria dell’Uomo” come ricordava spesso lo storico Burkinabé Joseph Ki-Zerbo. La grande avventura umana è iniziata su questo immenso continente. Lì sono avvenute le prime grandi rivoluzioni culturali: l’invenzione del pensiero simbolico e del pensiero grafico, l’invenzione di riti religiosi, l’invenzione della numerazione, ecc. Lì sono sorte le prime grandi industrie umane: l’industria della pietra, del ferro e una buona parte delle industrie del Neolitico. Aggiungo che questa terra è la culla di antiche e prestigiose civiltà: Nubia (Kerma, Napata, Meroe), Egitto, Axum e le civiltà subsahariane post-faraoniche (Wagadu, Ghana, Mali, Songhai, Nok, Ilé Ifè, ecc.). Ma questo continente è anche la terra che, per secoli, ha lottato (e sta lottando ancora) contro il progetto barbarico della disumanizzazione dell’Uomo. Per tutti questi motivi, mi sento di dire che la vocazione primordiale e perenne dell’Africa sia quella di contribuire a “elevare sempre e ovunque l’Uomo alla dignità dell’Uomo”. Questa vocazione, ella l’ha assunta sin dagli albori e nell’arco della sua storia millenaria, nonostante i secoli di buio e le tragedie di oggi».
La filosofia africana: in che modo farla arrivare fino a noi? Che cosa ci potrebbe insegnare e “regalare”?
«Nel 2017, ho pubblicato, insieme a due colleghi, un libro intitolato “Filosofie in dialogo. Lexikon universale: India, Africa, Europa”. L’obiettivo di questa pubblicazione è di offrire uno strumento didattico agli insegnanti che vorrebbero insegnare filosofia in una prospettiva transculturale. Questo obiettivo fu anche quello degli autori di un volume pubblicato dall’Unesco nel 2014: Manuel de philosophie. Une perspective sud-sud (Afrique, Région arabe, Asie-Pacifique, Amérique latine et Caraïbes). Nel presentare il volume, l’allora Direttrice dell’Unesco, Irina Bokova, scrisse: “In un mondo globalizzato, il dialogo deve svolgersi su scala globale e abbracciare veramente la diversità delle saggezze che hanno influenzato i popoli nella storia e che non sempre sono state sufficientemente diffuse (…). È questo vero pluralismo intellettuale e filosofico, veramente aperto al mondo, che ci permette di individuare le migliori prospettive per il futuro” (p. 5). Oltre alla ricchezza dei suoi contenuti teorici, ciò che la filosofia africana “porta” all’Italia e all’Europa – e ciò vale anche per le altre tradizioni filosofiche non occidentali – è una nuova narrazione della storia della Ragione, una narrazione totalmente diversa da quella eurocentrica di Hegel. Purtroppo, la versione hegeliana è ancora dominante negli ambienti accademici italiani. Solo attraverso il “dialogo dei logos” è possibile costruire un mondo multipolare pacifico. Altrimenti si concretizza – come è il caso da decenni – lo scenario prospettato da Samuel Huntington, cioè lo “scontro delle civiltà”. Strumentalizzare la filosofia per dei fini ideologici ed egemonici è tradire lo spirito filosofico e l’ideale pluralistico-umanista che lo caratterizza. La verità, ha detto un grande uomo, è “logos che si fa dia-logos”».
Lei è del Benin, si è mai sentito rivolgere la parola in quanto “africano”, come spesso avviene? C’è secondo lei l’idea che l’Africa sia una nazione, invece che un continente?
«Due cose: c’è da una parte la tendenza di cui lei parla. Essa denota un certo riduzionismo che deriva da una grande ignoranza o da ciò che lei ha chiamato gli “stereotipi”. Dall’altra parte, c’è la tendenza a ridurre le realtà socio-culturali del Continente a entità “tribali”, “claniche”, “etniche”, cioè entità chiuse in sé e nell’atemporalità. Questa seconda tendenza risale ai tempi dell’etnologia coloniale, ed è sorprendente che le categorie di clan, tribù, etnie siano ancora utilizzate oggi, anche da alcuni intellettuali. Tutti e due gli atteggiamenti sono profondamente offensivi e dunque deplorevoli. Ciononostante, non mi offendo di sentirmi chiamare “Africano”, perché “essere Africano” vuol dire credere in ciò che ho chiamato la “vocazione dell’Africa”. Mi sento orgoglioso di questa vocazione e della grande storia del Continente. “Essere Africano” vuol dire anche aderire e partecipare all’ambizioso progetto dei padri fondatori dell’Africa moderna, e cioè, il progetto dell’unità politica continentale, il progetto del panafricanismo. Mi ritengo un panafricanista e, come tale, abbraccio con gioia l’intera Africanità, quella Continentale e quella Diasporica».
Il dialogo tra i popoli è una delle sue specializzazioni: qual è lo stato dell’arte al momento? Lei è ottimista o pessimista?
«Guardando allo stato attuale del mondo, mi vengono in mente alcune parole di Martin Luther King: “È mezzanotte nell’ordine sociale. All’orizzonte internazionale, le nazioni sono impegnate in una colossale ed aspra disputa per la supremazia… È mezzanotte nell’ordine psicologico. Dappertutto, paralizzanti timori tormentano e incalzano la gente giorno e notte… Lo stanco viandante di mezzanotte che chiede pane è, in realtà, in cerca dell’alba: il nostro eterno messaggio di speranza è che l’alba verrà”. Mi vengono anche in mente i versi di un bellissimo poema di Tagore, intitolato “Amore del cammino”. Dice il poeta: “In quella patria sconosciuta troverò/ dolci lettere dell’amico:/ Le onde dello spirito/ danzando amando. / Nel ritmo, da quella lontana terra, risuonerà il flauto”. Chi, meglio dei profeti e dei poeti, può annunciare incisamente l’alba della speranza? Ecco perché ho citato queste due figure. Non mi vergogno di credere che, nonostante le difficoltà e le tragedie della storia, l’umanità continui a camminare verso quella “lontana terra” della Pace Universale, quella “patria” della Civiltà Universale dove le “onde dello spirito e dell’amore” fanno gioire i cuori. Rimango dunque ottimista. La mia consolazione è di vedere che le nuove generazioni, da ogni angolo della terra, aspirano sempre di più a vivere in un mondo “décloisonné”, un mondo della diversità condivisa e dialogica. Nel mio impegno accademico cerco di promuovere, con i miei limiti, questo spirito».