«Ma lui è arrivato col barcone?».
Il medico mi tramortisce così e in cuor mio spero che S. non abbia capito quelle parole, si sia distratto, non abbia sentito, abbia la testa altrove.
S., soggetto passivo forse perché minorenne, forse perché straniero, è con me dentro l’ambulatorio di un moderno ospedale di una ridente cittadina romagnola. Il medico si rivolge a me e non a lui, nonostante la domanda non mi riguardi in prima persona. Inizio a provare disagio.
Il dottore è un po’ il là con l’età e forse già per questo potremmo perdonargli una certa goffaggine nella domanda. Lo reputo in buona fede, forse addirittura vuole mostrarsi sensibile sulla tematica migrazioni.
Ma la domanda, così mal posta e indelicata, mi fa venire un brivido sulla schiena.
Ecco qual è il primo pensiero su un ragazzino di 17 anni dalla pelle color biscotto.: «Quello arrivato col barcone», come se solo per il fatto di essere straniero S. dovesse essere associato alla imperversante narrazione visiva delle rotte migratorie. Fosse stato pachistano, avesse attraversato per mesi i Balcani, per il medico S. sarebbe stato comunque quello del barcone.
Non importa nemmeno se S., per arrivare qui, abbia dovuto superare le barriere di Ceuta e Melilla, nascondersi sotto a un camion e farsi la Spagna a piedi.
Quello sul barcone ha gli occhi neri, un sorriso che spiazza, un italiano comunque comprensibile e il progetto di mandare i soldi a casa per aiutare la famiglia che non ce la fa.
Avrebbe molte storie da raccontare, specie per l’età che ha. E soprattutto, saprebbe rispondere da solo a diverse domande sulla sua persona, specie se piene di dignità.