
Possono diventare interdipendenti degli estranei provenienti da due culture diverse che si ritrovano a dover convivere la stessa casa? Per Tom Mc Carthy (alla seconda regia dopo l’applauditissimo Station Agent), sì; per dimostralo firma The Visitor (2008), dramma underground crudo e spiazzante, innervato da lucida rabbia sociale contro le falle e l’inumanità del sistema immigrazionistico americano al risveglio dagli attentati dell’11 settembre 2001.
L’esperimento, semplice nelle premesse, è vincente nella resa: far convivere Walter Wale, un professore vedovo, completamente prosciugato di energie vitali con Taireb e Zainab, giovane coppia africana che gli occupa illegalmente l’appartamento. Gli ospiti inattesi, appunto, poi rivelatesi anche irregolari. Ma anche individui che superano per primi la diffidenza per scommettere sul valore capitale della relazione e del dialogo al ritmo di djembe siriano.
Per cui diventano la cartina di tornasole con cui, contro la sua volontà, il ceto intellettuale americano (rappresentato da un Richard Jekins che sfiora l’Oscar puntando tutto su abbigliamento e atteggiamento dimesso e sguardo sfiduciato verso il futuro) è costretto a prendere coscienza delle pulsioni xenofobe che serpeggiano nella società americana, qui, più che mai, nella sua veste più disgregante, carceraria e divisiva.
Walter, così, si rianima con l’irruzione nella sua vita della musica africana, così piena di vitalismo e ritmi esotizzanti, che tradisce quella spinta incrollabile a costruirsi un riscatto anche in una terra inospitale. Tarek e Zainab imparano, invece, che incontrando l’altro (da sé), escono «ghetto» mentale in cui sono stati relegati. Perdendolo, al contrario, si disgregano e si spaurano.
Ne esce fuori un film intimo, urgente, di forte calore umano. Di ritmo compassato, ma di regia solidissima che sa sempre, perfettamente chi inquadrare e come, perché sorretta da una sceneggiatura che si esalta per essenzialità di toni e chiarezza di temi. E che non annacqua, così, la passione civile con cui la cinepresa segue le peripezie dei personaggi dispersi tra le strade, i parchi, i ghetti, le carceri di New York, conducendoci per mano a un finale inaspettatamente lirico e sospeso.
Mc Carthy confeziona così un piccolo gioiellino antirazzista, senza ricorrere alla scorciatoia accalappiapubblico del pietismo verso chi soffre, ma tirandoci dentro le tribolazioni di tutte le vite migranti del nostro tempo, sempre in bilico tra ragioni di sopravvivenza individuale e insensatezza delle leggi sociali.
Nota finale di merito alla fotografia metropolitana di Oliver Bokolberg che si esalta nelle calde inquadrature in interni, mentre la società occidentale, là fuori, fatta di alienazione dilagante tra università-grattacieli e muraglioni di carceri, è solo grigio inaridimento, cinismo, tedio, e indifferenza.