Indagare una comunità per lo più sconosciuta. Questo il desiderio alla base della mostra «Sulle orme di una comunità invisibile: i rom di oggi e di ieri», che sarà inaugurata oggi venerdì 25 febbraio, alle 17,30 nello spazio espositivo PR2 di Ravenna (via Massimo d’Azeglio, 2). Il progetto, che rientra nel percorso Territori Comuni, è del fotografo Giampiero Corelli e della giornalista Barbara Gnisci, con la collaborazione di Francesco Bucci per la parte audio e musica. Abbiamo chiesto a Corelli qualche anticipazione.
Perché la scelta del mondo rom di ieri e di oggi? Ha un legame particolare con questa comunità o con qualche suo rappresentante?
«La scelta non è stata né casuale né provocata da qualche legame particolare. Da sempre lavoro sulle persone messe in disparte e quando mi hanno proposto questo tema ho accettato molto volentieri».
Lei ha spesso trattato il tema della donna, in vari contesti più o meno complessi. Anche in questa mostra ci sarà uno sguardo particolare sul genere femminile?
«No, questo lavoro non ha una specificità femminile. La donna c’è, ma il progetto comprende la famiglia, quindi uomini, donne e le diverse generazioni».
I rom sono spesso, ancora oggi, «invisibili», come evidenziato nel titolo della mostra. Sono costretti molte volte a nascondere la propria etnia per «sopravvivere». Fermare le immagini e i loro volti su un supporto li rende senza dubbio presenti, reali, concreti. Come ha percepito la loro «invisibilità»?
«Durante questo progetto è venuto fuori in maniera molto evidente il fatto che, nonostante ci siano famiglie rom insediate nel contesto urbano cittadino, integrate nella società, c’è sempre la paura a esporsi in quanto rom. La mostra tratta sia una parte di popolazione rom integrata nel contesto urbano sia di un’altra dedita più al nomadismo. In ogni caso, anche le persone integrate maggiormente hanno paura ad esporsi».
Quanto tempo ha richiesto questo lavoro? Ha avuto difficoltà nell’ottenere i permessi per scattare le foto o c’è stata partecipazione da parte del popolo rom?
«Da quando è partito il pensiero di questa mostra è passato un anno. Il termine usato nel titolo, “invisibili”, deriva anche da questo: si procedeva a volte spediti e poi c’erano dei momenti di calma piatta, un lavoro un po’ “schizofrenico”, difficile, complesso. Molte cose non sono riuscito a farle a causa della diffidenza».
Suo padre ha avuto modo di fotografare diversi decenni di storia ed è la persona che le ha trasmesso la passione per la fotografia. Quello che inaugura oggi è il percorso nella storia di un popolo, tramite un’immagine statica – la fotografia – che tuttavia rappresenta un movimento nel tempo e nello spazio di un popolo. A tutto questo si devono le parole «ieri» e «oggi» del titolo?
«La mostra è piccola: all’interno di stanze buie ci sono le fotografie illuminate soltanto con una piccola lucina, come se dovessero essere difese, accompagnate da musica e racconti. È un lavoro molto intimo. Io sono originario di Sant’Alberto, un piccolo paese dove mio papà ha svolto per 40 anni l’attività di fotografo. Ho vissuto una parte della mia vita in questo paese in mezzo all’acqua, fiumi e valli di Comacchio, dove i paesaggi sembra non cambino mai (l’acqua è ferma e c’è la nebbia) ma dove, in realtà, le cose cambiano. Io ho attinto sia dal luogo sia da mio padre, che mi ha dato l’impostazione, la capacità di documentare i movimenti, anche se lenti».
Ogni esperienza di vita, lavorativa o meno, credo ci cambi un po’: cos’è cambiato in lei con il lavoro confluito nella mostra?
«Il popolo rom non ha mai fatto guerre ed è un popolo libero. Questo modo di vivere, in un periodo in cui vediamo popoli soppressi da guerre e povertà, nonché gravati dalla pandemia, ha rafforzato in me il valore della libertà e l’importanza di salvaguardarla sempre».