«Richiedente asilo è un’espressione alquanto gentile: noi non richiedevamo un bel niente con gentilezza, eravamo voraci, mossi dall’esclusiva necessità di salvaguardare i nostri corpi».
C’è un libro che vale più di cento tratti sulla psicologia dei rifugiati. Me lo ha suggerito, non a caso, Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome Italia. Si intitola «L’ingrata» (Feltrinelli) e lo ha scritto Dina Nayeri, che da bambina, come la sua protagonista, lasciò l’Iran insieme alla madre in seguito alla Rivoluzione khomeinista.
Ricordandoci che migranti, o profughi, non si nasce, semmai si diventa, Nayeri entra nei più profondi meandri del disagio psicologico, ma anche della voglia di riscatto, di chi scappa dal proprio Paese perché, semplicemente, non può più rimanere.
E ci restituisce, sottile come può esserlo solo chi, quei terremoti del cuore, del corpo e della mente li ha vissuti sulla propria pelle, dinamiche importanti, che dovremmo tutti conoscere. Come quell’attesa infinita in cui chi chiede protezione internazionale piomba inesorabilmente, un limbo paralizzante per il quale, però, ci si aspetta gratitudine: come se fosse un peccato dei più gravi «l’incapacità di restare calmi» crogiolandosi nella propria incolumità fisica. Come se non fosse comprensibile che ad aspettare si diventa teatrali: «Ti agiti, tiri pugni. L’attesa amplifica le reazioni».
La gratitudine, dicevamo. Da chi chiede di restare fuori dalla zona di pericolo, provando a costruire una nuova vita altrove («a casa nostra», diceva qualcuno) noi vorremmo sentirci dire infinitamente grazie. Ogni lamentela ci disturba, come se chi è stato accolto dovesse solo tacere: «Anche il volontario meglio intenzionato desidera sentirsi ringraziato. Lavora per quello sguardo silenzioso di ammirazione che perlopiù è spontaneo, ma che comincia a pesare se a ogni persona che incontri ti danno una pacca sulla spalla per sollecitare la tua gratitudine».
E poi la credibilità. È magistrale, l’autrice, nel farci capire come i richiedenti asilo, o rifugiati, abbiano addosso per anni, forse per sempre, il peso di dover dimostrare di meritarsi tutto ciò che ricevono. A partire da quando devono convincere una commissione territoriale della veridicità dei fatti narrati: «Come la maggior parte dei profughi dopo una fuga in cui si rischia la vita, io e la mia famiglia eravamo docili, estasiati, pieni di gratitudine. Ma avevamo corso i nostri pericoli. Se la mente razionale assomiglia a una strada liscia, la nostra era piena di buche, resa impervia dalla paura e dalla paranoia. Certo, potevo farmi forza con la gioia, la logica o grazie a quel cambiamento. Ma una singola parola poteva mettermi in crisi per un giorno, una settimana, farmi dubitare di essere degna di un nuovo posto in questo mondo. Sono davvero una profuga? Le insinuazioni bruciavano».
E la dignità, in tutti questi processi, dove sta? Nel sentirsi parte, secondo l’autrice, di una comunità che non guarda ai profughi come a una massa di «loro», ma come a un pezzo nuovo, da integrare con pazienza, reciprocità, vicendevolezza: «Abbiamo un incedibile istinto a renderci invisibili, a nascondere i nostri dilemmi morali, a beneficio dei potenti». Eppure, l’essere profugo plasma le identità, l’essere scappati dalle proprie terre condiziona per anni scelte, comportamenti, personalità.
E pensare che ai profughi, a livello di immaginario, forse va persino meglio, anzi sicuramente, dei migranti cosiddetti economici, declassati a gente che viene a depredare: «Io ero una migrante accettabile perché avevo un mio mantra costante: “Sono un carico messo in salvo, lo dimostrerò, vi ripagherò, cambierò”. Ma se sei nato nel Terzo Mondo e osi lasciarlo prima che la tua vita sia in pericolo, i tuoi sogni sono sospetti. Sei un avventuriero, un opportunista, un ladro. Vuoi troppo».