Leila Belhadj Mohamed: «Il caporalato è un tema molto vicino alle mie battaglie»

Si intitola «Il colore del lavoro» l’ultimo dibattito in programma al Festival delle Culture di Ravenna 2022. Domenica 5 giugno alle ore 21, all’Almagià, dopo il monologo di Stefano Massini, porterà le sue battaglie, la sua esperienza e il suo punto di osservazione anche Leila Belhadj Mohamed, giornalista e podcaster esperta in relazioni internazionali. Insieme a lei, condotte da Christian Elia, il presidente dell’associazione No Cap Yvan Sagnet e l’Orchestra dei Brccianti.

Leila, da attivista per i diritti delle minoranze, quali sono le principali battaglie che ha intrapreso negli ultimi anni?

«Non amo definirmi attivista, nel senso che avendo un corpo politico, in quanto donna razzializzata, e facendo un lavoro che comporta il raccontare il mondo, la giornalista e podcaster freelance, per me è sempre stato inevitabile attivarmi per i diritti di tutt*. Negli ultimi anni mi sono occupata principalmente di giustizia sociale, lotta al razzismo, campagne per la modifica della legge 91/1992 sulla cittadinanza, per la modifica della legge Bossi Fini e la lotta ai CPR, oltre a tutte quelle campagne legate alla narrazione razzista del nostro giornalismo».

Lei è figlia di una coppia mista, quindi forse molto vicina, per sensibilità, alle tematiche della cittadinanza e dell’intercultura: come vive il fatto che in Italia lo ius soli non sia mai entrato in vigore? Il fatto di essere “per metà” tunisina come ha influenzato la sua vita e il suo lavoro?

«Da figlia di coppia mista mi sono sempre resa conto del mio privilegio rispetto, ad esempio, ai miei cugini: io sono cittadina dalla nascita grazie allo ius sanguinis – anche se sarebbe bello ricordare che le donne possono passare la cittadinanza solo dal 1985 – mentre loro hanno dovuto aspettare i 18 anni, passando anche attraverso il trauma delle questure da giovanissimi. Questo vale per quasi un milione di persone sul nostro territorio, e non è più accettabile. Non è accettabile nel 2022 avere ancora in vigore un testo normativo redatto quando l’Italia era ancora un Paese di emigrati e non di immigrati. Per non parlare di tutte quelle dinamiche legate al fatto che sia una legge classista, non solo razzista. Essere metà tunisina per me è sempre stata una fonte di arricchimento, ma la società non l’ha mai vista così. Nel nostro Paese, a partire dal 2001, si sono radicate l’islamofobia e l’arabofobia, forme di discriminazione e di razzismo completamente ignorate anche oggi, e devo dire che ha influenzato moltissimo in negativo la mia quotidianità, non solo nella vita sociale, ma anche in quella lavorativa».

Nella serata del 5 giugno si parlerà di sfruttamento dei lavoratori e caporalato. Quanto la tocca, l’argomento, e quanto è vicino alle sue, di istanze?

«Molto. Il caporalato è ormai trasversale a tutte le professioni, è estremamente legato alla precarietà del mondo del lavoro, precarietà che diventa ancora più insormontabile. Questo sistema è basato sullo sfruttamento del lavoratore al punto che diventa un moderno schiavo, legato a tal punto da non potersi ribellare. Quando la persona sfruttata è una persona migrante, il livello di sfruttamento è ancora maggiore: il lavoratore non può perdere il lavoro, altrimenti perde i documenti. Come possiamo pensare di raggiungere un contesto di giustizia sociale se non partiamo dall’abolizione dello sfruttamento del lavoratore?».

Lei si definisce transfemminista: come spiegherebbe, ai profani, questa sua peculiarità?

«Mi definisco femminista transfemminista e femminista decoloniale, perché sono due forme di femminismo che vanno oltre la “semplice” parità di genere. Sono quelle correnti del femminismo in cui si cerca l’abolizione della segregazione sociale per motivo di appartenenza a una classe sociale, a una etnia, a un genere o a un orientamento sessuale. Si va oltre la difesa dell’eguaglianza di genere nella società, bensì si ritengono i ruoli di genere una costruzione sociale utilizzata come strumento di oppressione. Fondamentalmente sono movimenti che hanno l’intento di ampliare e trasformare i codici che regolano tutte queste costruzioni sociali».

Guardando all’attuale momento in Italia, qual è lo stato dell’arte della narrazione sull’immigrazione, a suo parere?

«Terribile, negli ultimi tempi è anche peggiorata. Anche se con la Carta di Roma si è vietato l’uso della parola “clandestino”, la narrazione della stampa mainstream – soprattutto la tv di Stato – non è adeguata a una informazione oggettiva e priva di razzismo. Abbiamo ancora molto lavoro da fare».