Questa sera alle 22 arriva, a Lido di Classe, un volto nuovo della Black Music in Italia: si tratta di LeBron Johnson, cantante dalla voce potente e raffinata al tempo stesso, con una timbrica calda e suadente. Il concerto è in programma al Lido “Spiaggia 30” e rientra nell’ambito di “Spiagge Soul”, festival di musica soul organizzato dall’associazione culturale “Blues Eye” in compartecipazione con il Comune di Ravenna, che dal 2009 anima le estati dei lidi ravennati ospitando grandi artisti di fama internazionale. Johnson Odiase, in arte LeBron Johnson, porta con sé una storia bellissima, fatta di riscatto, sofferenza, viaggi e ritrovata serenità grazie alla musica, all’Italia e alla sua fede.
Johnson Odiase, come mai ha lasciato la Nigeria? In Italia è stato difficile ambientarsi?
«È una lunga storia. Sono nato a Torino, ma per problemi familiari mia mamma, io e i miei fratelli siamo ritornati in Nigeria, dove ho vissuto per 10 anni. Lì non è stato facile. Dopo tanta fame e sofferenza, vedendo il grande disagio in cui versava la mia famiglia, mosso dall’amore per i miei fratelli e da tanta disperazione, presi una decisione, che mi costò molto: contattare mio padre, con cui avevo interrotto i rapporti. Lui si era rifatto una vita, aveva un’altra famiglia in Italia. Ci accordammo e dopo diversi ostacoli burocratici, arrivai in Italia il 4 giugno del 2017. Avevo 18 anni. Ero giovanissimo e anche per questo motivo integrarmi non fu per niente semplice. Facevo fatica a comunicare, non conoscevo la lingua e non avevo un lavoro».
Che ruolo ha avuto la Chiesa evangelica di Ravenna nella sua vita?
«La religione è una parte fondamentale del mio mondo. Credo in Gesù e questa fede mi dà la forza di parlare sempre con la verità e di ricercare la sapienza e la pace interiore. Nella comunità evangelica di Ravenna sono assistente del direttore musicale e ho l’audace responsabilità di insegnare la Bibbia ai fedeli. In sostanza, sono un ”insegnante della Bibbia”. Inoltre sono anche mediatore culturale della cooperativa Terra Mia, un ruolo che è stato determinante nel mio inserimento nella società. Oggi la Chiesa evangelica e Terra Mia sono la mia seconda famiglia».
Come nasce il progetto musicale con Andrea Pititto e la sua passione per il genere gospel?
«Il merito è tutto del direttore musicale della chiesa che frequento. Si chiama Sammy. Un giorno mi comunicò che c’era un musicista che stava cercando un ragazzo con “una voce nera” per mettere in piedi una band. Quel musicista era Andrea Pititto, che per la prima volta incontrai nel suo studio a Carpi. Fra noi scattò subito una grande sintonia, anche se dopo poco tempo dicesi di abbandonare il progetto perché mi sentivo inadeguato. Mi sembrava un’opportunità al di sopra delle mie capacità. Ho sempre avuto poca fiducia in me stesso. Andrea, tuttavia, non ha mai mollato, sapeva quello che voleva. Per tanto tempo ha continuato a chiamarmi per sapere come stavo, per spronarmi a provare. Alla fine decisi di darmi una seconda occasione. Amo il gospel, lo cantavo già in Nigeria anche perché ha un significato molto importante per noi evangelici. Il termine in inglese significa infatti “vangelo, buona novella, parola di Dio. Tutti i testi musicali gospel sono ispirati alla Bibbia».
La sua è un’anima blues e soul: che cosa vuole trasmettere al suo pubblico quando canta?
«È un tipo di musica che arriva dritta all’anima e ha un profondo legame con la mia fede religiosa. Quando canto voglio trasmettere il messaggio di Dio agli uomini, Dio inteso come amore e gioia pura».
Il fenomeno migratorio non si arresta. Nel nostro Paese ad esempio aumentano gli sbarchi a Lampedusa. Che cosa pensa di questa situazione?
«Questo è un argomento molto complesso, come quello della cittadinanza in questo Paese. Quindi cercherò spiegare come la penso, raccontando una barzelletta. Un uomo muore e va in paradiso. Dopo un po’ di tempo però si stanca della pace e della tranquillità e chiede a Dio di poter visitare l’inferno. Dio gli dà il permesso e l’uomo arriva nell’inferno. Qui vede belle donne, beve tanto, mangia quello che vuole e si diverte. Quando torna in paradiso, raccatta le sue cose e dice a Dio che non sarebbe più tornato perché preferiva l’inferno. Giunto di nuovo qui, tuttavia, si accorge che le cose sono cambiate: solo fuoco e zolfo e persone che gridano e piangono. Due demoni lo afferrano e lo portano davanti al diavolo. L’uomo chiede al diavolo: ‘’Cos’è successo a questo posto?’’ Il diavolo ride e risponde: ”Non confondere il turismo con l’immigrazione”».
Secondo lei, come si potrebbe aiutare lo straniero che arriva in Italia a intraprendere un percorso di integrazione?
«Prima di tutto penso sia fondamentale partire dalle basi e cioè far recepire allo straniero il vero significato del concetto di integrazione. Lavorare su quella che io definisco “mentalità da vittima’’, che porta a pensare di poter ottenere ciò che si vuole solo perché si arriva da una situazione e da una realtà molto più complessa. In secondo luogo, fargli capire che oggi in Italia gli stranieri hanno acquisito molti più diritti e privilegi rispetto ad esempio a cinque anni fa, quando arrivai dalla Nigeria. Abbiamo molte più opportunità di ieri, a mio avviso, non possiamo affermare che c’è più razzismo ora rispetto a ieri».