Secondo appuntamento, sabato 28 gennaio alle ore 10, alla sala Muratori della Biblioteca Classense di Ravenna, per la rassegna «La mia Africa» organizzata dal Comune e dalla Casa delle Culture. Dopo Chiara Piaggio, i protagonisti saranno Luca Jourdan, professore di Antropologia sociale e Antropologia politica all’Università di Bologna, e Karin Pallaver, che insegna, sempre all’Unibo, Storia e istituzioni dell’Africa. I due docenti racconteranno il libro scritto a quattro mani «Parlare d’Africa. 50 parole chiave» (Carocci). Abbiamo rivolto a Luca Jourdan qualche domanda.
Il libro che presenterete a Ravenna si intitola «Parlare d’Africa». Nel discorso collettivo, come si parla oggi di Africa? E come, invece, se ne dovrebbe parlare?
«È un discorso complesso. In Italia, soprattutto, si parla molto poco di Africa. C’è una certa ignoranza, intorno al continente per varie ragioni. Vi è certamente una tendenza a parlare d’Africa in modo stereotipato. Per ignoranza sulla contemporaneità, da un lato, l’Africa diventa solo il continente delle barbarie e della violenza. Oppure, al contrario, una sorta di continente ancora fermo allo stato di natura primitiva».
Sono 50 le parole chiave che passate in rassegna e sviscerate, in questo volume. Su quali di queste, in particolare, c’è più bisogno di decolonizzare il nostro sguardo e sgombrare il campo dagli stereotipi?
«Quasi un po’ su tutte. Questo libro si rivolge a un pubblico che non ha conoscenze specifiche e vuol essere un’introduzione al continente. Al termine di ogni voce viene indicata una bibliografia di riferimento per chi volesse approfondire, quindi vuole dare un quadro generale. Le voci che vanno decolonizzate sono moltissime, ad esempio il concetto di etnia: l’Africa spesso viene considerata come naturalmente divisa in etnie ma sappiamo che le etnie hanno una storia e il colonialismo ha avuto un ruolo centrale se non nel crearle, sicuramente nell’esasperare le divisioni etniche. Un’altra questione è la crescita demografica. L’Africa suscita spesso enormi allarmismi; è vero che è il continente che conosce la più alta crescita demografica al mondo, ma ovviamente è una crescita difforme. Ci sono Paesi che sono in decrescita. L’allarmismo precipita nella paura delle invasioni, esasperate dalla politica attuale, perché non si conoscono le dinamiche reali. Noi abbiamo Paesi come il Ruanda dove abbiamo un aumento della vita media e un calo della fecondità, perché si fanno meno figli. Abbiamo l’Uganda e il Niger dove la popolazione continua ad aumentare. Abbiamo trend molto diversi che ci dicono che è un continente in continua mutazione».
Tra le prime parole analizzate ci sono l’afropessimismo (quindi una visione negativa e catastrofica del continente) e l’afrottimismo. Da cosa dipende il fatto che, nell’immaginario, ci si sposti da un estremo all’altro, con il rischio di una costante generalizzazione?
«Da un lato si vede l’Africa come il continente bambino, ancora allo stato di natura, e dall’altro l’Africa come lo Stato delle barbarie della violenza incontrollata. L’afrottimismo e l’afropessimismo variano anche un po’ nei diversi momenti storici. C’è stata un’ondata di afrottimismo quando venne liberato Mandela, con la fine dell’apartheid, con i nuovi leader, a fine anni ‘80. Poi abbiamo conosciuto una serie di guerre: la guerra in Somalia, il genocidio in Ruanda, la guerra in Congo, che hanno portato a un’ondata di afropessimismo. La crisi degli anni ‘90 è una crisi profondissima dovuta anche al cambiamento geopolitico, la caduta del muro di Berlino che in Africa ha avuto un contraccolpo molto forte. Bisognerebbe quindi avere giudizi più misurati, non farsi cogliere troppo dalle fazioni».
Gli italiani soffrono, scrivete, di una sorta di amnesia coloniale, che ci ha fatto dimenticare di essere stati dei colonizzatori. Quanto potrebbe essere utile acquisire delle conoscenze, sulla nostra storia coloniale, per svincolarci da uno sguardo ideologico e monolitico sul continente?
«Sarebbe utilissimo; c’è stato un po’ il mito degli “italiani brava gente”, poi sono arrivati storici come Del Boca e altri che ci hanno mostrato il lato iperviolento del colonialismo italiano, l’uso dei gas, i campi di concentramento. Forse, l’Italia, durante il regime fascista, non ha avuto la sua Norimberga e sia il colonialismo prefascista che quello fascista sono stati un po’ tutti condonati e noi abbiamo un po’ incorporato quest’idea dell’”italiano brava gente”. In realtà sappiamo che non è stato tutto così e studiare il colonialismo italiano ci serve anche per capire meglio noi stessi, i miti infondati su cui noi spesso reggiamo la nostra comunità».
Che responsabilità ha la scuola nel veicolare la complessità dell’Africa, consentendoci di smettere di guardarla come il continente senza speranza, da salvare?
«Ha una responsabilità enorme. Sono convinto che le scuole elementari in primis e anche le scuole medie siano un momento chiave di formazione di cittadinanza e quindi anche di consapevolezza. Penso che un libro del genere che è semplice può essere utile anche agli insegnanti per parlare del continente in modo un pochino più informato, che vada un po’ al di là dei soliti stereotipi che siano quelli del continente povero. La povertà esiste, ma l’Africa non è solo quello e bisogna evitare le considerazioni un po’ riduttive. Esiste la guerra, ma ci sono Paesi che non l’hanno conosciuta come la Tanzania. L’Uganda è uno dei Paesi che accoglie il più alto numero di profughi al mondo rispetto al quale l’Italia fa ridere. Ci sono insomma anche degli eventi virtuosi in Africa ed è anche nostro interesse aprirci verso questo continente».
Quale parola, delle 50, vi sta maggiormente a cuore?
«Cinquanta sono poche, in realtà; comunque la questione demografica mi interessa molto perché non ci dice solo semplicemente che la popolazione cresce o diminuisce, ma ci indica i fattori che influiscono sulla crescita della popolazione, che sono diversi. Sappiamo benissimo, per esempio, che il calo della natalità è piuttosto correlato all’alfabetizzazione delle donne, alla maggior apertura e all’emancipazione. Sono dati che ci dicono molto, che entrano più nel profondo di come si sta trasformando la società africana».