«Ho iniziato a praticare canto da bambina, mi esercitavo ogni giorno. La mia passione per la musica nasce così ed è una delle cose migliori che mi siano mai capitate». L’artista internazionale Moonlight Benjamin, dalla voce potente, in grado di passare dal beat voodoo, rock haitiano al blues, ha fatto della musica la sua vera arte e oggi è una delle cantanti più interessanti della nuova scena di Haiti. Attesa tra gli ospiti del Festival delle Culture 2022, si esibirà in concerto questa sera, alle ore 23, all’Almagià di Ravenna.
Moonlight Benjamin, ho letto che all’inizio della sua carriera, ascoltava musica classica e jazz anni ’30. Come si è avvicinata ai suoni tradizionali haitiani, alla religione vudù e al rock occidentale?
«Nel 1991 sono stata selezionata per partecipare ad un evento. Uno dei requisiti era cantare canzoni tradizionali haitiane e canti vodou. Io che non sapevo nulla di questo mondo, ho chiesto ad un altro artista di aiutarmi. Mi ha prestato una cassetta per ascoltare e imparare alcune canzoni. Da lì è scoccata la scintilla, mi sono lasciata trasportare fin dalle prime note».
Nel 2009 dalla Francia vola ad Haiti per essere iniziata come sacerdotessa della religione vudù. Come mai questa scelta? Quanto ha inciso nella sua vita appartenere all’identità afro-caraibica?
«Sono cresciuta in Francia, in una famiglia religiosa protestante, ma non mi sentivo esattamente al mio posto, ero sempre alla ricerca di me stessa. Ho capito qualche anno dopo che era importante ricercare i miei antenati e le mie vere origini. Vi assicuro che questa scelta non è stata facile, ma si è dimostrata alla fine essenziale per la mia “trasformazione”. La mia identità afro-caraibica fa parte di me, mi completa come artista e come persona. Non potrei farne a meno».
La sua musica con il tempo diventa un mix di conoscenze, identità e tradizioni. Fonde rock, blues e ritmi vudù, quando canta cosa vuole trasmettere al suo pubblico?
«Quello che voglio trasmettere con la mia musica è pura gioia e il desiderio di vivere questa vita con grazia e di amare sempre incondizionatamente».
La sua è una vocalità potente, ha una presenza scenica notevole. Spesso appare con lunghi abiti neri di pizzo e tatuaggi sul volto, che richiamano i sincretismi religiosi della sua isola d’origine. Cosa vuole comunicare?
«Con questa presentazione scenica, voglio catturare le energie positive che mi circondano e trasmetterle in modo potente e straordinario al pubblico. Un modo intenso per ricongiungersi “all’altro”, al nostro prossimo per sentirsi parte di un unico mondo».
«Mèt Agwe», una delle sue ultime canzoni, sembra essere un’invocazione allo spirito del mare: quella dell’attraversamento del mare è invece la metafora ricorrente della creazione della nazione di schiavi ribelli. Ci spieghi meglio il significato…
«Mèt Agwe fu una delle divinità più vicine agli schiavi durante la tragica traversata del 1697, imposta dall’Impero francese. Rappresenta infatti il Dio del mare. L’ho menzionato in questa canzone per rassicurarmi della sua presenza e per ricordargli che questo doloroso capitolo della storia africana – sono ancora tanti i profughi che lasciano le loro terre e si avventurano in mare – ci perseguita ancora. Nelle mie canzoni denuncio lo sfruttamento e la mancanza di libertà che affligge la gente del mio Paese e di tutto il mondo».
Attualmente a quale progetto sta lavorando? Come mai la scelta di partecipare al Festival delle Culture?
«In questo momento sto lavorando al mio nuovo album, ma è ancora presto per parlarne. Partecipo al Festival perché per me la cultura è qualcosa di essenziale, vitale. L’incontro con l’altro è fondamentale per nutrire e arricchire la propria anima».