La Protezione Civile sostiene l’accoglienza in Famiglia dei profughi ucraini, parla Refugees Welcome

L’accoglienza in famiglia, progetto cardine intorno al quale, sin dalla fondazione, si è incentrato il lavoro di Refugees Welcome Italia, torna attuale con la crisi ucraina. L’avviso da poco pubblicato dalla Protezione Civile, che invita i soggetti del terzo settore a realizzare un’accoglienza cosiddetta «diffusa», infatti, prevede che il collocamento dei profughi ucraini possa avvenire anche nelle famiglie che si candidano all’accoglienza. Famiglie che, grazie a un capitolato che ha tentato di tenere conto della specificità di chi scappa dalla guerra in Ucraina, prevede risorse a sostegno di chi apre le porte di casa propria e di chi viene accolto. Anche a Ravenna, dove Refugees Welcome Italia già supporta il Comune nella gestione dell’Albo delle famiglie accoglienti, primo in Italia, in questi giorni il tema è più che mai caldo. A parlarne, la direttrice Fabiana Musicco.

Fabiana Musicco, direttrice Refugees Welcome Italia

Fabiana, come è avvenuta la decisione di partecipare all’avviso della Protezione Civile?

«Abbiamo ormai una consolidata esperienza sull’accoglienza in famiglia, che ricordo non abbiamo realizzato solo noi in Italia. Cito, a titolo di esempio, le iniziative di Ciac Onlus a Parma, di Caritas, del Comune di Milano e di Rifugio diffuso a Torino. Leggere, nell’avviso, che questo modello viene pensato ora su larga scala per l’accoglienza degli ucraini significa non solo assistere a un riconoscimento importante al lavoro fatto fino a oggi ma constatare come l’accoglienza in famiglia abbia le potenzialità per essere integrata istituzionalmente ed essere inserita in una cornice più ampia, diventando parte di una pluralità di possibilità e modelli di accoglienza».

In che modo l’accoglienza degli ucraini in famiglia potrà assomigliare alle accoglienze già realizzate con migranti che provengono da altri Paesi?

«Non si possono negare le differenze di partenza. Le accoglienze che di solito realizziamo riguardano persone che sono già passate da percorsi di accoglienza istituzionali, che siano i centri Cas e Sai o le comunità per minori. Sono, quindi, già da qualche anno sul territorio italiano e hanno una conoscenza almeno basica della lingua. Hanno avviato un percorso di integrazione. Con gli ucraini sappiamo bene che il discorso è un altro: siamo davanti a nuclei interi, spesso donne con minori, che non conoscono l’italiano e che sono in Italia da pochissimo, spesso con un trauma importante legato all’aver lasciato in fretta e furia case, affetti, famiglie, lavoro, quotidianità. Ma i pilastri sui quali siamo pronti a operare sono gli stessi di sempre e sono aspetti sui quali abbiamo molto insistito nel momento in cui, all’interno del Tavolo Asilo di cui facciamo parte, abbiamo potuto far avere alcuni suggerimenti per la redazione del capitolato».

Quali sono, nello specifico, questi step?

«La profilazione delle famiglie, l’orientamento, la formazione, il tutoraggio, l’abbinamento, l’accompagnamento, il mentoring. Solo avendo cura di ognuna di queste fasi, come abbiamo tenuto a precisare che venisse fatto, si potrà lavorare bene sull’accoglienza in famiglia. Questo, infatti, è il modo che conosciamo per affiancare alle famiglie accoglienti una piccola comunità che le sostenga: si tratta di un passaggio culturale di non poco conto. Inoltre, l‘ avviso indica le spese ammissibili e indica la possibilità di realizzare progetti personalizzati: questo consente di tenere conto dei desideri, delle competenze e delle fragilità delle persone accolte. Bisogna sempre più guardare alle persone, non al “fenomeno”».

Lei è fiduciosa che si possano realizzare esperienze significative anche per le persone ucraine?

«Siamo davanti a diverse variabili, una delle quali è il tempo di permanenza degli ucraini sui nostri territori. Non sappiamo, a oggi, se queste persone faranno rientro a breve nel proprio Paese o diventeranno i soggetti di una migrazione duratura. I numeri sono importanti, si parla 90mila persone ucraine arrivate in Italia, di cui 33mila minori. Ciò non toglie che questi anni di lavoro ci hanno dimostrato che l’accoglienza in famiglia, se ben fatta, funziona. Perché permette alle persone accolte di essere parte di un sostegno affettivo e relazionale che attiva in loro risorse e potenzialità. L’accoglienza, inoltre, è un supporto all’inclusione che si basa su una conoscenza diretta e su uno scambio reciproco continuo tra le persone. Come ben sappiamo, è difficile che tutto questo avvenga nei grandi centri».

Che cosa si aspetta, da una città come Ravenna?

«Grandi cose. Quando il Comune, sull’onda dell’emergenza, ha lanciato ai ravennati, attraverso l’Albo delle famiglie accoglienti, una chiamata per capire chi fosse disponibile all’ospitalità, la risposta è stata entusiasmante. Centinaia di persone si sono fatte avanti. Chiaramente sappiamo che accogliere interi nuclei familiari comporta una serie di spese e la necessità di attivare una rete di servizi a supporto. Ecco perché il bando della Protezione Civile, in questo momento, è importante: mette infatti a disposizione risorse economiche, di cui l’Albo, da solo, non dispone. In ogni caso, promuovere l’accoglienza in famiglia e “sistematizzarla” significa fare cultura, significa cogliere un’occasione purtroppo tragica per rilanciare un modello valido, che noi di Refugees conosciamo bene. Con la Protezione Civile abbiamo insistito affinché potessero essere previsti, nel bando, lotti piccoli. Alla fine, si è deciso che il minimo dei posti che gli enti possono offrire è 300, ovviamente pensati in modo “diffuso”. Questo consentirà di presentare progetti anche a livello regionale o di grandi città».