«La nave dolce» di Daniele Vicari: il 9 agosto 1991 ci svegliammo terra di migranti

Kledi ora fa il ballerino, Eva la traduttrice, Halilm l’impiegato, Robert il regista. In quel torrido 8 agosto 1991, però, per caso e per disperazione, si stiparono a Durazzo in un mercantile stracolmo pur di arrivare in Italia. Dei ventimila albanesi sdilunquiti e ingannati dalle omelie della nostra tv parla La Nave Dolce (per via delle tonnellate di zucchero in stiva) di Daniele Vicari, documentario presentato fuori concorso a Venezia 69 e scritto a sei mani con Benni Atria e Antonella Gaeta con le musiche dell’ottimo Teho Teardo.

Umanità, si diceva, ridotta (letteralmente) in mutande da quarant’anni di regime Hoxha. Nella terra promessa trova, però, indifferenza, impreparazione, fame, sete, reclusione. “Dulcis” in fundo, un rimpatrio dopo una settimana di confino, senza troppi convenevoli.

Vicari, “ultimo” nostro regista politico, racconta l’inizio dei flussi albanesi verso l’Italia con cinque migranti; la regia essenziale, sorretta da un immane scavo d’archivio, schiva la tentazione del saggio storiografico, cogliendo comunque nel segno, senza enfasi retoriche.

Perché Kledi, Eva, Halim, Robert ci tolgono le bende dagli occhi. E, con loro, sulla nave,  ci viene sonno. E caldo. E fame. E rabbia. E raccapriccio.

E scopriamo, così, che i limiti del nostro sistema, oggi come allora sono gli stessi: l’incapacità politica di tesaurizzare i flussi, “tamponandoli” con rattoppi dannosi e improvvisati; la nostra indifferenza, condita da menefreghismo, verso chi arriva (come se migranti non fummo e siamo anche noi); il potere della televisione di creare nelle masse un immaginario paradisiaco impietosamente smentito, poi, dalla realtà; la migrazione come carta della disperazione, altro che invasione; i respingimenti, una scappatoia per mettere la testa sotto la sabbia e “allontanare” la realtà.

Documentario dei volti, delle emozioni e della (nostra) vergogna, crea con il coetaneo Diaz (2012), un dittico pregevolissimo di sdegno civile sull’inumanità della nostra democrazia. Perché riesce a documentare senza almanaccare, a denunciare senza sparare nel mucchio, a commuovere senza scadere nel pietismo, a dibattere senza offrire verità scolpite nella pietra.

Con La nave dolce, dunque, torniamo al giorno zero. A quel mattino assolato in cui l’Italia si (ri)svegliò terra di migranti senza saperlo. E senza esserne all’altezza. Allora come adesso.