«La mia Africa» ospita Nicoletta Brazzelli: «La letteratura postcoloniale è una forma di resistenza»

Ultimo appuntamento per la rassegna «La mia Africa» del Comune di Ravenna, che si inserisce a sua volta nel ricco programma della «Settimana contro il razzismo». Sabato 18 marzo alle ore 10, alla Sala Muratori della Biblioteca Classense, sarà la volta di Nicoletta Brazzelli, professoressa di Letteratura inglese contemporanea all’Università di Milano, che porterà il suo libro «L’ enigma della memoria. Il romanzo anglofono da V. S. Naipaul a Taiye Selasi» (Carocci), che offre una panoramica a tutto campo e per tanti versi sorprendente sul romanzo postcoloniale contemporaneo di lingua inglese (l’evento è a ingresso libero, ma ci si può iscrivere qui).

Nicoletta Brazzelli

Michail Bachtin ha introdotto il concetto di cronòtopo in letteratura, intendendo il fatto che tempo e spazio, in un romanzo, sono inscindibili. Lei, nel libro L’enigma della memoria, cita Atlante del romanzo europeo di Franco Moretti come il libro che le ha aperto un mondo sul fatto che la geografia sia un aspetto fondamentale dell’invenzione letteraria. Come si intrecciano queste suggestioni ai suoi studi sulla letteratura post-coloniale?
«Innanzitutto, ho una formazione geografica oltre che letteraria. Anche per questo i miei studi di letteratura inglese (ottocentesca e contemporanea) non possono prescindere dal ruolo cruciale dello spazio nella creazione artistica. Il cronotopo, per Bachtin e anche in senso più generale, ossia il continuum spazio-temporale che struttura la narrazione, introduce una nozione critica che apre straordinarie prospettive di lettura e interpretazione. In effetti, all’inizio del mio lavoro universitario mi sono appassionata alle mappe ideate da Franco Moretti nell’Atlante del romanzo europeo: le mappe permettono di (ri)leggere i romanzi in un modo diverso, mostrano il movimento dei personaggi entro un determinato contesto, le loro connessioni reciproche. L’Atlante di Moretti mi è stato prezioso per pensare anche al romanzo postcoloniale, per sua natura strettamente legato agli spazi e al movimento attraverso mondi diversi ma interconnessi. Le “cartografie letterarie” sono state particolarmente praticate negli ultimi anni, e sono convinta che la mappatura degli spazi sia fondamentale nel romanzo contemporaneo postcoloniale, perché propone ripetutamente storie di migrazioni, viaggi, passaggi, spostamenti con una forte connotazione geografica e una temporalità estesa, fra passato e presente. Le mappe letterarie sono importanti sia per ciò che includono che per ciò che invece non includono, ossia per il rimosso».

«L’artista postcoloniale deve continuamente lottare per descrivere lo spazio che lo circonda come altro rispetto a quello del colonialismo». In che modo il sentimento di rottura e la violenza legate alla fine del mondo coloniale vanno a impattare sulla letteratura?

«La letteratura postcoloniale, che si sviluppa dopo la fine degli imperi coloniali, dopo la decolonizzazione, implica un “dopo” ma anche un “oltre”, un superamento della violenza coloniale in nome di un mondo diverso, libero dai poteri imperiali, anche se spesso caotico e incerto. Sappiamo bene che dopo il raggiungimento dell’indipendenza dei paesi colonizzati esplodono spesso conflitti, anche molto sanguinosi, alcuni dei quali hanno strascichi fino al presente. La prospettiva postcoloniale cerca di rivisitare storie e geografie del passato per produrre nuove mappe. Edward Said, pioniere degli studi postcoloniali, sottolinea, nelle sue analisi illuminanti degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, il ruolo della violenza coloniale e le sue implicazioni spaziali. Infatti comporta non solo l’annientamento delle popolazioni indigene, le loro lingue, le loro culture, ma anche lo sfruttamento del territorio e il suo “svuotamento”, sino in termini di nomi. Pensiamo a come i luoghi colonizzati sono stati rinominati: è una violenza terrificante, togliere un nome e attribuirne un altro è una pratica coloniale che ha un intento preciso, un dominio forse ancora più solido di quello militare e politico. Secondo me, la letteratura è sempre militante, approva o denuncia, anche indirettamente; conta anche per quello che non dice, che rimane sottinteso o accennato. La letteratura postcoloniale è una forma di resistenza, con modalità diverse a seconda delle peculiarità geografiche e politiche. Di recente, si accosta sempre più la scrittura postcoloniale agli studi sul trauma: si tratta di una connessione sicuramente significativa da esplorare».

Migrazioni, esili, esodi, mescolanze tra popolazioni, sradicamenti, spostamenti, identità ibride, conseguenze linguistiche: in che modo la letteratura postcoloniale media tra locale e globale, tra attaccamento ai luoghi e ‘migranza’?

«Ci sono sempre molti mondi nelle letterature postcoloniali, in cui si alternano partenze, arrivi e ritorni, attraversamento di frontiere, insieme a speranze, illusioni, delusioni. Il senso della differenza e della pluralità le caratterizza. Vale la pena forse ricordare che negli ultimi decenni il termine postcoloniale è stato messo in discussione, alcuni critici lo ritengono superato, mentre si sono diffuse altre “etichette” ugualmente complicate e dibattute. Per esempio si parla di “transnazionale”, di “diasporico”, mentre sulla scia della nozione di cosmopolitismo è stato coniato il termine di afropolitismo. Tutte queste definizioni rivelano aspetti importanti e hanno una loro specificità, e tuttavia io continuo a ritenere significativa la parola “postcoloniale”: la letteratura postcoloniale esiste appunto perché ci sono stati storicamente degli imperi coloniali e nasce nel momento del loro superamento. A tutt’oggi, non credo si possa ritenere che le conseguenze dell’imperialismo non siano ancora assai pesanti. Per considerare i due poli apparentemente opposti di globale e di locale, possiamo pensare al rapporto fra centro e margini, che letteralmente si ribalta con la decolonizzazione. Allora si verifica un percorso inverso. Gli scrittori postcoloniali sono parte integrante di solide tradizioni locali, sradicate dalla colonizzazione e recuperate in seguito, e spesso le loro opere scaturiscono proprio dal legame inscindibile con il paese di origine, a volte il villaggio, l’ambiente naturale, la foresta, il deserto, il mare, il fiume. Le loro esistenze (e quelle dei loro personaggi) segnate dalla migrazione li portano a vivere in altri continenti, climi, paesaggi, a conoscere e muoversi in mondi lontani e differenti. Salman Rushdie ha ribadito che il migrante è la figura più rappresentativa della contemporaneità perché unisce conoscenze e prospettive diverse: passa dal locale al globale, attraversa i continenti e si porta dietro lingue, storie, tradizioni, che si intersecano con altre storie, altre lingue e altre tradizioni e contribuiscono al mondo globale, lo arricchiscono e lo problematizzano».

Per rappresentare come storia e geografia, nel romanzo post-coloniale in lingua inglese, si intreccino in modo disorganico, lei ha scelto Naipaul, Vassanji, Gurnah: perché?

«V.S. Naipaul è l’autore che ho scoperto prima degli altri, e che mi ha fatto comprendere la complessità della scrittura postcoloniale. È stato faticoso. La letteratura è sempre complessa per la verità, e apre a interpretazioni diverse, ma nel caso dello scrittore inglese di origine caraibica e con antenati indiani,  Nobel per la Letteratura nel 2001, è anche contraddittoria e si fa portatrice di una profonda amarezza e disillusione rispetto al presente decolonizzato. Naipaul ha una straordinaria consapevolezza del proprio ruolo di narratore: si appropria della tradizione inglese e la contesta dall’interno. È uno scrittore difficile, che è stato accusato di farsi portatore dell’ideologia eurocentrica (io penso che questo suo atteggiamento sia funzionale agli obiettivi che si pone). I suoi testi intrecciano piani diversi: al loro interno, le geografie del presente e del passato si sovrappongono, inglobano continenti, città, paesi, villaggi. Vassanji e Gurnah sono entrambi originari dell’Africa Orientale, il primo ora vive a Toronto, il secondo nel Regno Unito: si conoscono e, credo, si stimano. Naipaul costituisce un modello, non sempre facile da indicare e da riconoscere, ma sicuramente entrambi lo annoverano fra i loro riferimenti. Naturalmente quando si selezionano dei testi per uno studio o anche per un corso universitario, e si individuano connessioni tematiche e strutturali, alla base c’è, per forza di cose, il gusto personale, soggettivo. Nel mio caso, hanno avuto un ruolo fondamentale la considerazione dei legami testuali, la ricorrenza di tecniche narrative, la sensibilità linguistica. Se dovessi riscrivere L’enigma della memoria oggi aggiungerei un altro scrittore contemporaneo che leggo, apprezzo e propongo nei mei corsi di letteratura inglese contemporanea: Romesh Gunesekera, nato in Sri Lanka e residente in Gran Bretagna: mette al centro la ricostruzione memoriale, e la àncora ai luoghi (Reef è il suo romanzo forse più significativo). Poi, appunto, va da sé che in questo ambito della ricerca e dello studio molto dipende dalle letture personali: se prendo in considerazione alcuni scrittori, ne escludo moltissimi altri».

Naipaul, in The Enigma of Arrival, l’opera da lei analizzata, parla della ricerca di una nuova identità, da parte di un immigrato, nella terra dei suoi antichi oppressori: quanto è forte questa tematica, quanto è trasversale questo voler mettere radici nei Paesi dei colonizzatori, nella letteratura che lei studia e insegna?

«La questione dello sradicamento e della (nuova) appartenenza è fondamentale e ricorre in maniera costante, a volte ossessiva, in tutta la letteratura contemporanea. Gli scrittori postcoloniali appartengono a etnie e culture molteplici, ma scrivono in inglese,  la lingua dei colonizzatori, che fu loro imposta secoli prima, quando i loro antenati vennero espropriati delle proprie lingue native. Sforzarsi di appartenere a una nazione significa anche ambire a inserirsi in una tradizione letteraria consolidata, diventare parte del canone di quel paese. Vincere un Nobel, evidentemente, significa lasciare un segno entro una determinata tradizione letteraria e linguistica ma anche a livello globale, e, nel caso di Naipaul, per esempio, rappresenta l’uscita definitiva da uno spazio insulare, Trinidad, ritenuto marginale, per affrontare il mondo e “insediarsi” al centro, in Inghilterra. Leggendo Naipaul assistiamo anche, in una dimensione solitamente autobiografica e metanarrativa, alla realizzazione della sua ambizione di diventare uno scrittore. Da giovanissimo parte dalla sua piccola isola per recarsi a studiare a Oxford: poi, per la maggior parte della sua esistenza, lo scrittore vive a Londra, per un certo periodo in campagna, il cuore della Britishness, e ne celebra a suo modo la connessione con l’impero e con la sua identità ibrida, “hyphenated”, come si dice in inglese. Mettere radici però è un proposito che non si realizza mai completamente. È interessante notare che èdouard Glissant, intellettuale della Martinica, offre un’alternativa alle radici parlando di rizoma, simbolo di pluralità e di creolizzazione».

In che modo, invece, il libro di Vassanji The Book of Secrets esemplifica la sovrapposizione tra dimensione pubblica e dimensione privata, in una ridefinizione continua, dunque, dello spazio emotivo?

«The Book of Secrets, purtroppo finora mai tradotto in italiano, e dunque quasi sconosciuto nel nostro paese, è un romanzo straordinario perché contiene tante voci, del passato e del presente, appartenenti all’impero e alla contemporaneità, mescola i documenti storici con la finzione, e insiste sul ruolo delle relazioni private nel contesto imperiale e postcoloniale. I luoghi (i personaggi si muovono fra Tanzania, Inghilterra, Canada) sono carichi di emozioni. In tempi recenti, sono comparsi molti studi sulle geografie affettive ed emotive, che permettono di interpretare molto proficuamente le narrazioni diasporiche. Poi, l’elemento di maggiore interesse di questo romanzo sta nel non detto: o legami, anche intimi, fra colonizzatori e colonizzati hanno davvero cambiato il mondo, dando origine appunto alla mescolanza etnica, anche se per tanto tempo sono rimasti segreti. La letteratura permette l’emergere di storie dimenticate o condannate al silenzio dalle culture dominanti. Invece, vicende e personaggi apparentemente marginali ricevono l’attenzione di Vassanji, che recupera gli altri punti di vista e mette al centro la figura pressoché invisibile di una giovane nativa che dopo aver avuto, forse, una relazione con un governatore bianco scompare tragicamente dalla storia, ma la sua presenza fantasmatica si riverbera nel tempo e nello spazio e, in un certo senso, si reincarna in figure contemporanee».

Ravenna è una città accogliente, con politiche migratorie serie e che ospiterà, durante il Festival delle Culture 2023, il Nobel Abdulrazak Gurnah. Lei, nel volume, ne analizza l’opera By the Sea, in italiano Sulla riva del mare. In che modo, questo romanzo, può illuminarci oggi sulle migrazioni forzate e le dislocazioni linguistiche e culturali, in generale?

«Non a caso By the Sea è stato il primo romanzo di Gurnah a essere ripubblicato in italiano dopo l’assegnazione del premio Nobel allo scrittore originario di Zanzibar. Scritto nel 2001, si carica di risonanze di eventi successivi, come avviene spesso per opere davvero innovative. Il protagonista del romanzo, Omar Saleh, è un richiedente asilo. Il suo percorso a ostacoli in Inghilterra, da quando atterra a Gatwick con un piccolo bagaglio a quando riesce a sistemarsi in un appartamento in una anonima cittadina sulla riva del mare e incomincia a raccontare la sua storia a un altro migrante è paradigmatico. Una decina di anni fa, quando Gurnah non era per nulla conosciuto, soprattutto in Italia, in un articolo accademico, definii By the Sea un romanzo paradigmatico, e ne sono ancora più convinta oggi. La cosiddetta “crisi dei migranti” in Europa, cominciata nel 2013 e così riferita a partire dal 2015, conferisce ulteriore valore di paradigma al testo di Gurnah. Nel romanzo il protagonista si trova a varcare le frontiere dell’Europa (ora, dopo la Brexit, la Gran Bretagna non è più nell’Unione Europea ma resta parte di essa geograficamente): Edelman, l’ufficiale della dogana, insulta Omar Saleh e gli preannuncia discriminazione e sofferenza: gli chiede, ma cosa vieni a fare qui? Quante volte abbiamo sentito ripetere questa domanda! Omar è stato in carcere ingiustamente nel suo paese, e rischia di tornarci, ma all’arrivo si rifugia nel silenzio, non racconta la sua storia, finge di non conoscere l’inglese. Edelman rappresenta il “guardiano dell’Europa”, anche lui è un immigrato, ma originario dell’Est, dunque è bianco, e sequestra al migrante l’incenso che ha nella borsa (unico legame con il paese d’origine). La questione etnica è  in primo piano, in questo come in altri romanzi: esiste una competizione fra migranti di origine diversa e prevale la paura verso chi proviene dall’Africa. Il secondo personaggio del romanzo è Latif Mahmoud, un altro immigrato ben inserito nel contesto britannico, tanto da lavorare come docente universitario: anche lui ha subito discriminazioni razziste, è stato additato come ‘blackamoor’. La presenza di due voci, due migranti diversi profondamente legati da storie famigliari e il contrasto fra silenzio e parola sono centrali nel romanzo, che merita davvero di essere letto, anche per la lingua: un inglese raffinato con frequenti espressioni swahili e arabe. Questa alternanza è mantenuta efficacemente anche nella traduzione italiana».