Si intitola «La mia Africa», dal celebre romanzo di Karen Blixen, la rassegna che il Comune di Ravenna, a partire da sabato 17 dicembre fino alla primavera del 2023, organizza con esperti e scrittori per de-costruire l’immaginario comune sull’Africa. Il primo appuntamento è appunto dopodomani alle 10 (con ingresso gratuito) alla Sala Muratori della Classense (via Baccarini 3). La protagonista sarà Chiara Piaggio, laureata in Filosofia, specializzata in Antropologia e con un’esperienza ultradecennale nell’ambito dello sviluppo nell’Africa Sub-sahariana. Piaggio, insieme a Igiaba Scego, ha curato per Feltrinelli il libro «Africana. Raccontare il continente al di là degli stereotipi».
Perché, nel mondo Occidentale, abbiamo un’immagine monolitica e stereotipata dell’Africa?
«L’immaginario di un’Africa semi-tribale, dominata da guerre e povertà, è nato in epoca coloniale, quando è stato proposto il paradigma della “missione civilizzatrice”. Da allora questo immaginario ha continuato a riprodursi uguale a se stesso, perché la narrazione sull’Africa è stata dominata, quasi delegata, a modelli comunicativi che per loro natura avevano precise finalità. Le campagne di raccolta fondi, in primis, hanno l’obiettivo di accendere la luce lì dove ci sono i problemi, dove la situazione è peggiore, e ripropongono quindi inesorabilmente immagini di povertà. Il turismo ha continuato a ricalcare l’immaginario dell’esotico, raccontando i grandi parchi, le savane sterminate, la natura selvaggia. Infine la cronaca, che fa il suo lavoro di cronaca e riporta le notizie: le guerre, gli attentati terroristici, i colpi di Stato. A questo si è aggiunta, più di recente, la comunicazione sulle migrazioni. Per molti anni è mancata quella che potremmo definire una “narrazione culturale”, la narrazione che proviene dall’interno del continente e che viene veicolata dalla letteratura, dal cinema, dai fumetti, e così via. È mancato, in altri termini, il racconto della quotidianità, della vita nelle grandi città, delle storie d’amore, della musica nei club, dei circoli culturali. Non che in passato questa narrazione non esistesse (gli scrittori postcoloniali, ricordiamo, hanno avuto l’importante ruolo di raccontarci la storia da un punto di vista africano), ma è solo negli ultimi anni che sta riuscendo a raggiungere il grande pubblico».
Il libro «Africana» è dedicato (e si apre con un testo di) Binyavanga Wainanina, lo scrittore kenyota morto nel 2019 che nel testo “Come scrivere d’Africa” ironizza sulla narrazione dominante sull’Africa. Quanto considera importante questo testo come punto di partenza di una visione più realistica e più sfaccettata del Continente?
«Wainaina è stata una persona estremamente rilevante nel panorama culturale e letterario africano. Ha fondato una importante rivista letteraria in Kenya, Kwani, e si è impegnato attivamente per combattere ogni forma di stereotipo e discriminazione. Il testo “Come scrivere dall’Africa” è stato scritto nel 2005 ed è stato uno dei primi testi africani a trattare il tema della narrazione occidentale sul continente, a portare alla luce tutti i luoghi comuni più diffusi. Quando è stato pubblicato ha avuto un effetto dirompente. È stato tradotto in più di venti lingue e ha fatto il giro del mondo, contribuendo non tanto a cambiare la narrazione, quanto ad aprire un dibattito sul modo di raccontare l’Africa. Le critiche agli stereotipi venivano mosse da un africano, e qui sta la potenza di quello scritto, utilizzando la forte chiave dell’ironia, e dimostrando quanto fosse approfondita e consapevole la conoscenza che l’Africa aveva del mondo occidentale».
Da dove nasce il suo interesse per l’Africa e quali pensa siano i modi migliori per ribaltare i luoghi comuni che appannano l’immaginario comune?
«Ho conosciuto l’Africa per lavoro, quasi vent’anni fa. Fin dalle prime volte ho scoperto un’Africa profondamente diversa da come veniva raccontata in Occidente e molto, molto, più complessa e interessante: un continente con una storia potente e drammatica che continua a ripercuotersi sul presente, che sta attraversando rapidi e importanti cambiamenti e che fornisce continui spunti di riflessione. Non ho mai provato il cosiddetto “mal d’Africa”. E credo che la chiave per conoscere l’Africa sia questa: allontanarsi dal sentimentalismo che ci riporta inevitabilmente a focalizzarci sugli aspetti esotici, e avvicinarsi ad una comprensione del reale, compreso quello meno esotico, che, assicuro, risulta molto più appassionante. Oggi gli strumenti per avvicinarsi a questa nuova immagine dell’Africa ci sono e sono utilizzabili anche da parte di chi non può viaggiare, come la letteratura, i film che si trovano anche su Netflix, i social network. Curando “Africana”, Igiaba e io speravamo che oltre a leggere i racconti che abbiamo inserito nell’antologia, qualcuno potesse trovare interessante il tale o il talatro scrittore, e magari incuriosirsi, andare a cercare i suoi romanzi, da lì trovarne altri e altri ancora, allargando gli orizzonti».
Come avete scelto, lei e Igiaba Scego, con cui ha curato “Africana”, i testi degli scrittori raccolti nel volume? Che restituzione ci danno, a suo parere, dei mille volti dell’Africa?
«Abbiamo selezionato i testi innanzitutto cercando di attestarci su un alto livello letterario. Avevamo il duplice obiettivo di mostrare l’Africa così come viene raccontata dai suoi scrittori e di rivelare, al tempo stesso, il grande fermento letterario che sta crescendo all’interno del continente e che sta portando alla nascita di una nuova generazione di autori e, cosa ancora più importante, di una nuova generazione di lettori. Abbiamo cercato di fornire un’immagine il più possibile varia del continente, inserendo scrittori provenienti da diversi Paesi africani o della diaspora, racconti che sono stati pubblicati sulle grandi riviste internazionali e su riviste africane, e che affrontano molteplici argomenti, dalla vita quotidiana, alle megalopoli, ai senzatetto. Raccontare l’Africa al di là degli stereotipi non voleva dire, per noi, mostrare solo gli aspetti positivi di un continente in crescita, ma affrontare qualunque tematica, anche le più difficili, con uno sguardo completo e complesso, che andasse oltre la banalizzazione della povertà. In Africana troviamo ad esempio un racconto sui campi profughi, ma a finirci è una famiglia di reali rwandesi che poco prima aveva soggiornato all’Hilton. O una storia ambientata in una ricca villa di Accra, durante una scintillante festa di Natale, dove si consuma un abuso. Come ha detto Chimamanda Adichie Ngozi nel suo famoso Ted Talk “Il pericolo di una storia unica”, gli stereotipi non sono necessariamente falsi, ma di sicuro sono incompleti. Con Africana Igiaba e io volevamo colmare in parte questa incompletezza, facendo emergere un’Africa che come ogni luogo del mondo ha dei problemi, ma che ha anche tanto altro: una popolazione giovanissima e iperconnessa, città terrificanti e tentacolari ma anche fucine di energia e creatività, ibridazioni culturali e sempre più contemporanee».
Che cosa la fa più arrabbiare della narrazione comune?
«Tranne il razzismo in ogni sua forma e la strumentalizzazione a volte adoperata scientemente per altri fini, direi che nulla mi fa arrabbiare. Dietro l’immaginario diffuso sull’Africa, che produce l’atteggiamento del white savior o il pietismo o uno sguardo che potremmo definire in qualche modo ancora coloniale, il più delle volte non c’è cattiva fede. È semplicemente il frutto di una malainformazione o di una informazione parziale, che ha favorito la nascita di stereotipi la cui potenza sta nella loro stessa natura: gli stereotipi, infatti, spingono a cercare (e inevitabilmente a trovare) conferme di ciò che ci è stato raccontato, piuttosto che a inciampare nello stupore. Quando però mi capita di parlare di Africa e di raccontare un’Africa diversa, vedo un grande interesse a scoprire di più, ad indagare quel “tutto il resto” che viene poco raccontato, a comprendere le complessità che stanno dietro a fenomeni apparentemente banali. In un mondo che sta diventando sempre più piccolo, credo che approfondire la conoscenza su un continente che ci è così vicino risulterà indispensabile».