«La contabilità sull’anima» di Srebrenica, l’orrore raccontato 28 anni dopo

«Cosa c’è dall’altra parte del mare?», chiede la bambina.
«Una terra come la nostra»
, risponde la nonna in dialetto.

Una terra di cui, però, sappiamo poco o niente. E in cui Roberta Biagiarielli, oltre 25 anni dopo, ci riporta con tutta la crudeltà, l’orrore, l’assurdità di una guerra che stava a un’ora di volo da noi, ma forse non ci faceva poi così tanta specie.

«A come Srebrenica», ieri sera al Teatro Rasi di Ravenna all’interno del focus sui Balcani di Polis Teatro Festival, è uno spettacolo impressionante. Per come l’attrice tiene il palco, sola, per 80 minuti e passa. Per come sente il dolore, la disumanità e «l’odore di morte» mentre racconta dell’assedio, e poi del massacro di Srebrenica, la piccola cittadina della Bosnia-Erzegovina dove nel luglio del 1995 avvenne il genocidio di 8mila uomini e ragazzi musulmani. Per come ci ricorda che tra tutte le cose terribili, forse la più terribile è proprio l’uomo. Per come narra, per come piange, per come grida, per come denuncia, per come dà voce.

Viene una gran rabbia, uscendo da teatro. Ma perché non sapevamo, così nel dettaglio, cosa succedeva di là? Perché nessuno, a scuola, ci ha mai spiegato i Balcani, la ex Jugoslavia, Milošević? Perché non ci hanno mostrato dove sta Sarajevo, sulla mappa? Perché i caschi blu dell’Onu promisero alla gente di Srebrenica di proteggerla, ma poi la abbandonarono a se stessa? Perché si arriva a seppellire vivi quelli che di punto in bianco diventano i nostri nemici, a sparare al vicino, a dover lasciare casa propria, a sgozzare i bambini?

«Perché» è la parola che risuona nella testa quando, finito lo spettacolo, si smette di trattenere il fiato e si deve elaborare un pensiero, una riflessione, una decisione. Che sia prendere un volo Forlì-Mostar e andare a vedere, che sia approfondire, che sia tenere viva la memoria, che sia parlare di questa storia in giro.

«Una contabilità sull’anima», dice a un certo punto Roberta Biagiarielli parlando di quando un cecchino, o chi per lui, doveva decidere se uccidere il padre o il figlio: «Perché se ammazzi il padre sotto gli occhi del figlio, quello un giorno ti presenterà il conto, tra dieci anni, ma lo farà. Se ammazzi il figlio sotto gli occhi del padre, al padre gli porti via l’anima, il coraggio, la forza di combattere e di difendersi. Ne fai fuori due con un colpo solo, semplice contabilità».

E questo era solo l’inizio dell’assedio di Srebrenica, iniziato tre anni prima dell’eccidio del 1995, tragico epilogo di una pulizia etnica di cui parlare ancora oggi, domani, per sempre. Chissà dov’ero, l’11 luglio del 1995.

Qui il testo dello spettacolo.