Viki è solo un bambino. Solo che è straniero. Solo che è albanese. Solo che non può definirsi europeo. Solo che vive in una baracca senza il bagno.
Viki vede suo padre andare al lavoro. Ma quel lavoro è in nero. E senza contratto non si può avere un permesso di soggiorno.
“Viki che voleva andare a scuola” è un libro per ragazzi di Fabrizio Gatti (Bur) su un’infanzia rubata, perché quando si è migranti in un Paese in cui non sempre ciò che è legale e giusto, anche un diritto semplice come andare a scuola diventa una meta da doversi conquistare. Specie se non sai dove farti una doccia, a meno che tu non sia disposto a lavarti con le taniche d’acqua calda tra i capannoni. Specie se non puoi dormire tranquillo, a meno che tu non sia disposto a nasconderti al buio, la notte, tra i canali di scarico delle fogne mentre la polizia tenta una retata.
“Viki che voleva andare a scuola” è anche una storia di accoglienza. Perché a scuola poi chissenefrega se sei albanese, alla fine in matematica vai meglio dei tuoi compagni. Perché le maestre lo vedono nei tuoi occhi, quello spaesamento, e lavorano per fartelo sentire sempre meno. Perché i compagni ti fanno la festa, e anche se sei in imbarazzo quel calore ti fa bene. Lenisce le ferite di un viaggio pericoloso, il freddo della baracca, la paura dei topi, il terrore che papà non torni dal lavoro, una sera, perché è tardi, è irraggiungibile ma alla fine è stato solo trattenuto in caserma perché senza documenti.
Viki è gli anni Novanta, è anche oggi se vogliamo. Sì, purtroppo è anche oggi.