Kater i Rades, quando gli albanesi in fuga erano «bersagli» e il Canale d’Otranto divenne un cimitero

«Va’ su, non stare qui». Sono le parole che il 28 marzo 1997 la madre di Ermal, spronando il figlio a salvarsi, gli dice dalla stiva della Kater i Rades, la motovedetta stracarica di albanesi partita dal porto di Valona e che affonderà poco dopo. Ermal è uno dei pochi sopravvissuti alla strage, una strage ricostruita e narrata dal compianto Alessandro Leogrande nel libro «Il naufragio. Morte nel Mediteranneo» (Feltrinelli). In epoca di respingimenti, di navi umanitarie sottoposte a fermo e del sempreverde «fermiamo l’invasione», la storia dell’imbarcazione speronata da una corvetta della Marina Militare Italiana, la Sibilla, che la farà piombare a picco nel Canale d’Otranto, con una conta dei morti che arriverà a 57 (ma forse sono stati molti di più), è un pezzo di storia più che mai attuale. Ci sono uomini, donne e bambini che scappano da una guerra civile non più sostenibile e che non hanno alternative, se non quella di «infilarsi in quella scatola di sardine in alto mare». C’è un Paese, l’Italia, che definisce quelle persone in fuga dei «bersagli». Ci sono politici che, senza mezzi termini, dichiarano che bisogna «ributtare a mare» i profughi. C’è uno scafista, così lo chiameremmo oggi, che diventa il capro espiatorio della tragedia e che fa il nome di Namik Xhaferi. Ci sono accordi più o meno chiari, tra i due Paesi in questione, in merito a un «blocco navale». E poi c’è una strage da dimenticare, come sempre.

Al porto di Otranto l’artista greco Costas Varotsos ha trasformato la motovedetta albanese Kater i Rades in un’opera d’arte monumentale

Al centro di questa storia c’è una parola fondamentale, «harrassment», di cui dalla sala operativa del Maridipart di Taranto non tutti capiscono il significato. La potremmo tradurre «molestia», forse anche aggressione o azione di disturbo. C’è quell’ordine di «fare un’azione più decisa finanche quasi a toccare il bersaglio». Una frase, quel «finanche quasi a toccare» che non farà dormire il capitano Angelo Luca Fusco, che andrà dal magistrato di sua spontanea iniziativa, a raccontare che cosa ha sentito dire dall’ammiraglio Alfeo Battelli, che comandava la Sibilla da terra. In questa storia c’è una dose di dolore incommensurabile. C’è Elvis Isufi, undici anni, che dopo che la barca si è ribaltata e sta affondando, si infila in un oblò e affronta la pressione dell’acqua, unico bambino a salvarsi. C’è anche una donna incinta, che partorisce a causa dell’asfissia, e viene poi ritrovata morta, con il cordone ombelicale ancora attaccato al suo corpo. Il feto, chissà. 

E poi c’è un processo difficile, con registrazioni monche e prove mancanti, un processo nel quale la Marina sostiene che la Sibilla abbia sempre mantenuto un rotta lineare, prima dell’impatto, ma nel quale le perizie ribaltano questa tesi, controbattendo che non è vero che la Sibilla abbia sempre tenuto il timone al centro e che non è vero che la Kater i Rades abbia improvvisamente accostato a dritta. E poi quel cavo gettato in mare per impigliare una sua estremità nelle eliche dei motori della motovedetta albanese, operazione sulla quale vige ancora il mistero. E poi le onde, e poi quell’ordine «indietro tutta» arrivato troppo tardi. Alla fine Fabrizio Laudadio, comandante della Sibilla, si prende il 60% della colpa, Xhaferi il 40. 

E al di là degli aspetti processuali, tra l’altro narrati nel dettaglio da Leogrande, resta che un naufragio «solo apparentemente è un fatto collettivo», perché un naufragio «è la somma di tanti abissi individuali, privati», è quella madre che ha perso un figlio e veste a lutto da allora, è chi ha perso un fratello, una sorella, un marito. E allora «a ogni storia dovrebbe essere riconosciuto il diritto di essere raccontata, ricordata, menzionata per intero».