Issa, per fare il rider ci vuole una bicicletta (se non te la rubano)

Per fare il rider, ci vuole una bicicletta. Per fare una bicicletta, ci vogliono i soldi. Per fare i soldi, ci vuole un lavoro. Per fare un lavoro, ci vuole un permesso di soggiorno o un amico prestanome che ti passa il suo smartphone e il suo account perché “un rider nero è un rider nero”, nessuno si chiede come ti chiami. Per fare un permesso di soggiorno, ci vuole un lavoro in regola e così siamo punto e a capo. 

Issa è il protagonista di un film che pochi avranno la fortuna di vedere, «Anywhere, anytime» del regista Milad Tangshir, che con grande delicatezza e senza scadere nella spettacolarizzazione del dolore (e qui, di dolore, ce n’è tanto), racconta la dura vita di un migrante irregolare che, per campare e mandare a casa i soldi che ha promesso alla mamma, inforca la bicicletta e inizia a consegnare pasti caldi nelle case delle gente.

Va veloce, Issa, troppo veloce per le strade di Torino. Perché per quelle cifre ridicole che compaiono sullo schermo del cellulare, come per esempio 3 euro e 10 per una consegna, si rischia la pelle fuori dalle piste ciclabili, in mezzo al traffico, di giorno e di sera, in qualsiasi quartiere della città, appunto anywhere e anytime. Senza garanzie, senza tutele, senza che il furto di una bici non significhi perdere il lavoro e dover impazzire per recuperarla, quella bici vitale, prendere le botte per riaverla e arrivare a pensare che forse, a nostra volta, è meglio rubarne un’altra. Da un rider, paradossalmente.

C’è tutta una spirale di sfortune, in questo film, dalla bici rubata in poi. Che non sono eccessive, ma che raccontano di come da un evento apparentemente risolvibile (e lo è, per chi ha una vita agiata) si concatenino una serie di conseguenze a effetto domino che non sono così lontane dalla realtà, nella vita dei migranti.