Non è solo la legge sulla cittadinanza. È tutta la disciplina amministrativa dell’immigrazione che non funziona, se per rinnovare un permesso di soggiorno un cittadino deve attendere anni invece dei 60 giorni previsti dalla legge. Sia chiaro: uno, due, tre anni non per cause imputabili al richiedente, ma per gravi inefficienze della PA. Oggi chi presenta una domanda di rinnovo riceverà un appuntamento dalla Questura per il foto-segnalamento tra 7, 8 mesi, quando va bene, poi ci saranno i tempi tecnici dell’istruttoria e della stampa del tesserino e infine la consegna. Durante questo periodo il cittadino resta con delle ricevute datate ed entrano progressivamente in crisi i rapporti giuridici sottostanti alla titolarità del permesso di soggiorno: avrà problemi se dovrà instaurare un rapporto di lavoro, sottoscrivere un contratto di affitto o di mutuo, rinnovare la tessera sanitaria, aprire un conto corrente, recarsi all’estero, dichiarare la residenza o trasferirla. “Come mai non hai ancora il permesso di soggiorno? La ricevuta ha una validità di sei mesi, devi farla aggiornare in Questura…” sono solo alcune delle frasi sospettose e diffidenti che si sentirà rivolgere dai privati e dalle altre pubbliche amministrazioni con le quali dovrà interfacciarsi per i normali atti delle nostre vite quotidiane.
Quando va bene, tutto si risolve in perdite inenarrabili di tempo e di giornate di lavoro, file silenziose, “suppliche” volte a ottenere un timbro in più sulla ricevuta o a persuadere gli “altri” di essere regolarmente soggiornanti.
Quando va male, assistiamo a vite travolte da una burocrazia che con violenza inaudita spazza via vissuti, impatta in modo drammatico sulla vita quotidiana e sulla salute psichica e fisica di persone per bene, provoca scivolamenti verso la marginalizzazione sociale.
E stiamo parlando del 40% dei cittadini di Paesi terzi, quelli che hanno i permessi a scadenza. Sono meno di 1.500.000, compreso i figli minori (dati Istat 1/1/2023). Numeri ampiamente gestibili dalle Questure.
Poi ci sono gli status permanenti acquisiti dai cittadini soggiornanti di lungo periodo, il 60% del totale, ne sono titolari oltre 2.200.000 persone. Ebbene anche questi titoli di soggiorno, che dovrebbero essere soggetti solo ad aggiornamento periodico decennale e non a rinnovo, subiscono processi di precarizzazione. Questi permessi, essendo a tempo indeterminato, possono essere revocati solo nei pochi casi tassativamente elencati dalla normativa dell’Unione e di recepimento italiana, eppure vengono continuamente segnalate richieste di requisiti non dovuti, in alcuni casi pressioni per rinunce o addirittura revoche fondate su requisiti previsti per il rilascio e non per l’aggiornamento. Così i cittadini sono costretti a ritornare al permesso a scadenza. Perché? Che vantaggio possono avere la comunità, gli altri uffici pubblici, gli enti territoriali, le aziende, le persone dal precarizzare impropriamente una posizione amministrativa stabile di un cittadino di Paese terzo che vive e lavora in Italia da 30 anni e da 20 ha acquisito lo status di soggiornante di lungo periodo?
In questo quadro amministrativo si inserisce la situazione di tanti giovani, nati e cresciuti in Italia da genitori di Paesi terzi, che sono considerati italiani a tutti gli effetti dai compagni, ma non dalla burocrazia. Avranno problemi per praticare attività sportiva, per partecipare a gite all’estero con gli altri studenti, e nonostante si sentano italiani, dovranno aspettare il 18° anno di età per diventarlo formalmente. Se altri avranno fatto il proprio dovere. La giornalista e sportiva Danielle Madam a 7 anni giunge in Italia, dove è accolta dallo zio, perché il padre è vittima di una faida. Dopo qualche anno lo zio muore e lei e il fratello sono presi in carico dal servizio sociale come minori non accompagnati e affidati ad una comunità educativa. Si sente accolta e seguita, come dichiarerà in tante interviste, ma la comunità non la iscrive all’anagrafe. Studia, diventa maggiorenne e sportiva affermata, si laurea, ma quando chiede la cittadinanza, è in Italia da oltre 15 anni, non le viene concessa perché non ha dieci anni consecutivi di residenza, nonostante dal suo arrivo sia sempre vissuta in Italia. È il periodo della vicenda della cittadinanza farsa per il calciatore Suarez. In un bar si lamenta della disparità di trattamento. Viene insultata da altri avventori. La storia finisce sui giornali. Interviene il Presidente Mattarella che le conferisce la cittadinanza per meriti sportivi. Situazioni simili a questa ce ne sono tantissime.
Questi ragazzi non devono dimostrare nulla di più di quello che già fanno. Amare l’Italia e l’Unione Europea significa partecipare alla vita di comunità in Italia, studiare, giocare, amare, crescere, possibilmente con speranza e ottimismo nel futuro, come ci auguriamo che facciano tutti i giovani, nonostante il mondo sia così complesso: il cambiamento climatico, l’intelligenza artificiale, le trasformazioni del mercato del lavoro e del welfare, i conflitti ai confini dell’Ue, la questione alimentare e demografica. Per affrontare queste terribili sfide abbiamo bisogno di una comunità unita. Questori, Prefetti, Sindaci, Ministri, tutti noi che abbiamo a cuore la coesione sociale dovremmo allora chiederci quale comunità stiamo costruendo se trattiamo le persone in questo modo. “Ho la ricevuta da oltre un anno, ma sono una persona per bene, non ho nessun problema, i ritardi sono dovuti all’organizzazione della Questura, credetemi.” Che senso di appartenenza possono sviluppare, se sono sottoposte a continue mortificazioni, se non umiliazioni? Si riparla dello ius scholae, ma i ragazzi cosa proveranno, se non se ne farà nulla per l’ennesima volta? Si sentiranno orgogliosi, parte della comunità o respinti ancora una volta, strumentalizzati da campagne identitarie e divisive, oltre che sadiche? Propaganda che non ha certamente a cuore il bene comune.
Eppure molte questioni sarebbero risolvibili. Da molti anni il legislatore ha previsto che gli archivi dell’immigrazione e asilo, detenuti soprattutto dai ministeri, a partire dall’Interno, debbano essere condivisi all’interno della Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND) e resi accessibili agli altri gestori accreditati di servizi pubblici (vedi dlgs. 82/2005, noto come Codice dell’Amministrazione Digitale, CAD) per l’esercizio di finalità istituzionali e la semplificazione degli oneri per cittadini e le imprese.
Non vi sono problemi per la sicurezza nazionale perché, per espressa previsione normativa, nella PDND non confluiscono i dati attinenti a ordine e sicurezza pubblica. La rilevanza pratica di questa riforma sarebbe enorme per la gestione di tutti i procedimenti amministrativi, in quanto ridimensionerebbe l’abnorme architettura burocratica costruita sull’esibizione del documento di soggiorno, di ricevute datate, tesserini o quant’altro, permettendo di verificare alla fonte la regolarità del soggiorno, direttamente con l’amministrazione che ne detiene il dato. Tantissime paralisi amministrative nell’accesso a servizi, prestazioni, diritti, dipendenti dai ritardi strutturali di rilascio dei permessi di soggiorno, svanirebbero perché le pubbliche amministrazioni procedenti sarebbero tenute a verificare la regolarità d’ufficio, in modo sicuro ed in tempo reale presso la PDND, azzerando anche i rischi di contraffazione.
Perché allora non vengono sviluppate le interfacce necessarie?
Per il sistema Italia questa gestione ha un costo sempre più insostenibile ed una riforma della disciplina dell’immigrazione, coerente con l’infrastruttura digitale e la realtà fattuale del Paese, non appare più procrastinabile.