Il Salvatore fascista dei naufraghi: il Comandante spezzato e riunito di De Angelis

Il dolore. L’amore. La morte. La salvezza. La vita di Salvatore Todaro oscilla tra queste onde. Si rincorrono, si accavallano, si abbattono sul suo corpo. Lo temprano, lo provano, lo spezzano. Lo ammazzano. La sua colonna vertebrale si è spaccata in due in un volo aereo. Il busto intorno al petto fa da ago e filo, la morfina da anestetico. Il dolore per il Comandante è agnizione, l’amore per Rina sacrificio, l’erranza oceanica il destino.

Destino ineluttabile, impavido, dannato benché patrio, ma l’unico possibile che prende la forma dell’immenso, ignoto, informe azzurro. Cielo e acqua del Mediterraneo prima, dell’Atlantico poi da aggredire, attraversare, penetrare, affondare, domare, dominare, bombardare. Il capitano del sommergibile fende e fonde orizzonti, cuce l’Italia e il mondo, lega la terra alla terra, la vita alla morte, le donne lacrimose sul molo alle sirene dei fondali.

Il Salvatore, spezzato e riunito, è già morto ma vivo e ancora pronto alla morte. Sa che il suo destino è segnato nei titoli di testa dalla Cavalleria rusticana di Mascagni che fu del Toro scatenato (e domato) di Scorsese. L’avversario è lo stesso perché invisibile e interiore, gli scatti dei fotografi sul pugile sono le bombe (dal cielo o dai fondali) che accarezzano il sommergibilista, i pugni di La Motta le mitragliate del Comandante, ma il ring di Todaro scatenato è nient’altro quest’immenso traballante azzurro che cambia, urla, si spacca, stende e si rattrappisce, s’annera e si sbianca, si fa muro e sentiero, schianto e salvezza.

Ulisse Todaro ne è ammaliato, soggiogato, irretito. Lui unificatore spezzato di un’Italia sommergibile. Azimut e zenit. Bussola e mappa di una Nazione (di metallo) lunga, stretta e ammassata, da Nord a Sud, da La Spezia a Gibilterra. E poi oltre “una trincea che non si vede” fino alle Azzorre. I suoi ordini trapassano i confini e segnano i destini della Nazione che verrà: il fido Vittorio compagno di dialetto e resurrezioni; il cuoco canterino; il pio novellino in preghiera; il blasfemo con fallo eretto su croce al collo; e poi ancora il corallaro impavido e tragico, il mitragliatore monco che prima di spirare per dissanguamento, vuole vedere il nemico affondare.

Tutti esorcizzano la morte da morti in una nave che è girone e giostra scalpitante di speranza e greve di machismo, umori, ormoni, pulsioni. Piscio, puzzo, sperma, amori e nostalgie dentro un insetto subacqueo, pronto a finire schiacciato dalle bombe e dall’immensità ma ostinato a disturbare l’abisso.

“Noi non siamo dei mona!” urla il Comandante ai suoi figli di salsedine che si incontrano e scontrano e abbracciano e ammassano e aggrediscono e difendono l’un l’altro. Il Sud e il Nord. Il tanfo dei piedi e gli gnocchi. Lettere a Rina e O’ Surdato ‘nnamurato. Il sangue e il sale. Lo sprezzo del pericolo e lo struggimento di morte.

Il sommergibile, allora, oggi sommerso dalla retorica dei porti chiusi, riemerge nell’ostinazione umanitaria di un uomo di morte, morto, che ridà la vita. È questo il Comandante di Edoardo De Angelis, regista di un kolossal bellico avventuroso melodrammatico umanitario sentimentale umanitario struggente cimiteriale.

La vicenda, però, che riemerge dai fondali mobili d’Italia è tutta vera (anche se sogghigna all’assurdo). Al centro c’è il sommergibilista, pluridecorato Salvatore Todaro che, nel 1940, prima affonda e poi salva i superstiti di un sottomarino belga. Contro gli ordini fascisti. Contro i dogmi marziali. Contro l’equipaggio, il terrore e la ragione, perché si affonda “senza remore e senza paura il ferro nemico, ma l’uomo no, l’uomo lo salviamo” .

Un eroismo che è tutto militare, visceralmente fascista e familista, ma che prende senso e valore solo perché soccorrevole, solo perché umanitario prima che dinamitardo, solidale prima che ideologico. Per principio, per coerenza e fino alla prosopopea.

Il calco allegorico, allora, Atlantico-Mediterraneo, anni Quaranta-Duemilaventi è esposto, sottolineato, urlato, elencato sin dai titoli di testa. Nella storia di un comandante che salva esseri umani alla deriva ecco i belgi di ieri, africani di oggi, ecco la mano nemica – sempre italiana – che li affonda e li tira su, la ciurma ostile che borbotta, li schifa, li sdegna e li accoglie, la pelle che si ammassa su altra pelle agognando insieme il porto sicuro.

L’Italia del Comandante è un sommergibile che affonda da Ottant’anni. E continuando ad affondare, salva chi deve essere salvato.

Perché il mare sospende sicurezze, certezze, speranza ma anche omertà, indifferenza, bestialità. È il tribunale mobile e universale che celebra un’unica legge naturale spernacchiando il Diritto. Quello di un’unica, unificata etnia che tutte le altre cancella perché tutte le accoglie. Italiani e belgi, diseredati e disertori, sudditi e patriarchi, comandanti e comandati, sommersi e salvati. Tutti ammassati, cullati e perduti nell’utero submarino che dona terrore e incanto, acqua e fuoco, acciaio e pelle. Vita e morte.

Il Regio fascio Comandante, spezzato e riunito, è messinese, livornese, veneto, spezzino. Belga e italiano. Italiano e belga. Cosmopolita e cosmonauta. Fascista e fratello. Gerarchico e anarchico. Padre di figli d’acqua cullati fino alla morte, e di terra solo generati, mai accarezzati.

 Enea senza i suoi Anchise, Salvatore dei nemici; Sisifo che sopporta sulle sue spalle spezzate “duemila anni di storia”. Titano e pulviscolo nell’universo. Maciste e plancton dell’azzurro informe che gli dà forma e rotta e destino.

Ulisse, Pinocchio e Ahab che non rincorre ma guida, protegge, abita, accarezza, ripara la sua Balena, ragno metallico d’umanità che spaura nella ragnatela immensa della morte. Fino a morirci dentro, spezzato, di nuovo e stavolta per sempre: era sempre la guerra, era il 1942 a La Galite, un’isola della Tunisia, che, oggi come allora, guarda cerca sogna l’Italia oltre il mare.  

La salvezza oltre il dolore, l’amore e la morte.